DIRITTO E TRASFORMAZIONI SOCIALI
di Fabio Ciaramelli (Università di Catania)
La validità del diritto non è, dunque, una sua caratteristica strutturale o meta-storica, ma un effetto della sua auto-istituzione. Il fatto che nella determinazione della validità sia decisiva la dimensione procedurale, collega il problema della validità alla natura autoproduttiva del sistema giuridico. In altri termini, lo spazio stesso della validità giuridica è istituito dalla pretesa del diritto ad auto fondarsi. Sennonché questa pretesa, caratteristica del diritto moderno, non è un’essenziale qualità logica e intemporale del fenomeno giuridico, ma l’esito d’un processo sociale e storico e perciò non può essere estrapolata dalla concretezza del contesto da cui emerge.
In questo senso, il sistema delle norme giuridiche costituisce, come dice Luhmann, un “ordine auto sostitutivo” solo fino a quando vigono i significati sociali, i valori e le rappresentazioni collettive dominanti in un’epoca storica. Nei passaggi di fase, cioè nelle epoche rivoluzionarie, caratterizzate da una trasformazione sociale profonda, alla rottura della continuità dei significati sociali dominanti non può che corrispondere una trasformazione traumatica dell’ordinamento giuridico.
3. Presentare il diritto come ordine auto-sostitutivo è un gesto teorico raffinato, non esente però da ambiguità. La sua posta in gioco è esattamente il disconoscimento della discontinuità storica, e l’omologazione dell’alterazione sociale all’autorefenza evolutiva. La formula è ambigua, perché in fin dei conti disconosce il limite extragiuridico ma non extrasociale dell’attività istituente. Come se oltre lo spazio giuridico, al cui interno l’ordine esistente appare in grado di modificarsi solo attraverso un’autosostituzione, non vi fossero uno spazio e un tempo sociali che lo alimentano e lo fondano. In tal modo la trasformabilità delle norme giuridiche, proprio mentre sembra che sia affermata, è sostanzialmente disconosciuta nella sua natura storico-sociale.
Privilegiando l’ottica della continuità evolutiva, il funzionalismo sociologico vede nel mondo umano il proseguimento misurabile e prevedibile di una vicenda unitaria, di cui la natura inorganica e la natura vivente costituiscono il contesto determinante. La totalità del processo reale si mostra retta da un principio d’ordine unico e unitario: inoltre, la normatività d’un tale principio, immanente al processo e dunque innervata in esso, appare meramente funzionale alla sua perseveranza nell’essere. La produzione e riproduzione del reale è la vita del sistema, la sua autorealizzazione.
Applicando alle società umane i paradigmi dell’auto-referenza e dell’immunità, la teoria dei sistemi ricorre a un modello biologico-evolutivo, e lascia in ombra la differenza capitale tra la logica del vivente e quella che vige nel mondo umano. All’interno di quest’ultimo, l’autoreferenza immunitaria presuppone necessariamente che l’identità del “sé” – il quale ultimo funge da soggetto dell’autoreferenza e dell’immunità – sia stata socialmente istituita. Insomma, perché la trasposizione dell’autoreferenza biologica al mondo umano possa aver luogo, è preliminarmente necessario che sia stata istituita una forma concreta di identità collettiva alla quale il sistema sociale possa riferirsi. Nel suo passaggio dal biologico al sociale, la stessa autoreferenza deve essere istituita, il che eccede la trasmissione evolutiva del codice cognitivo.
S’assiste qui a una separazione radicale di cognitività e normatività. L’evoluzione, infatti, dota ogni organismo di un codice di comportamento, che risulta in se stesso “contestualmente normativo e cognitivo essendo finalizzato all’imperativo della mera sopravvivenza e riproduzione. Normatività e cognitività sono in ogni essere vivente strettamente correlate e reciprocamente condizionate al mantenimento dell’identità funzionale dell’organismo. Perciò l’accadere nell’ambiente di un evento non previsto – il caso – può essere evolutivamente metabolizzato mediante processi adattativi. […] La cognitività del sistema vivente è sempre aperta al “nuovo”, ma vincolata funzionalmente a tale imperativo”. Sennonché gli esseri umani, che sul terreno biologico partecipano certamente di questa logica, non sono vincolati alla funzione della mera sopravvivenza. Altrimenti cause costanti dovrebbero produrre effetti sommamente variabili, il che scientificamente non regge. “Il codice normativo umano, dunque, non è dato, ma creato dagli stessi uomini e prende “corpo” in ogni nuova vita umana” .[15] Se viceversa si ragiona come se il sistema sociale non creasse l’ordine istituito delle norme, e perciò si limitasse a tradurre sul piano sociale la norma dell’autoreferenza (che nel vivente funge da criterio funzionale immanente alla sua sopravvivenza), ne consegue allora il crollo della distinzione basilare nel diritto moderno tra norma posta e legge naturale. In tal caso lo stesso richiamo al sistema sociale non riuscirebbe a contrastare la propensione verso l’immanenza della norma biologica, la cui universalità risulterebbe in definitiva analoga a quella fornita dalla spiegazione naturalistica di ciò che è.
Ecco perché la nozione di diritto come ordine autosostituivo non rende sufficientemente conto delle cesure storiche e della loro portata rivoluzionaria. L’insorgenza di nuovi significati sociali esige una trasformazione radicale dello stesso ordine giuridico: a quel punto, la coerenza interna e la logica stazionaria o gradualmente evolutiva del sistema giuridico subiscono i contraccolpi di eventi storici imprevisti. In conseguenza di ciò, lo stesso ordo iuris inevitabilmente si altera e si trasforma in maniera radicale.
La nozione luhmanniana di diritto come ordine autosostitutivo mostra qui tutto il suo limite. Se è innegabile che la logica evolutiva e sistemica, sempre all’opera nel funzionalismo giuridico di Luhmann, risulta assai efficace nella comprensione del funzionamento del diritto all’interno di un’epoca storica determinata, tuttavia essa appare incapace di coglierne fino in fondo la genesi storico-sociale. Ciò deriva dal fatto che il funzionalismo disconosce l’appartenenza delle forme giuridiche alla storicità dell’istituzione, caratterizzata da discontinuità insuperabili.
4. Nella teoria luhmanniana, interruzioni e discontinuità si producono solo all’interno della storia dei sistemi ed esigono una rilegittimazione di cui però non viene riconosciuto il carattere innovativo e creativo, che in fondo viene ricondotto a un ininterrotto metabolismo sociale.
Questo disconoscimento deriva dalla concezione luhmanniana della “contingenza” in quanto premessa e orizzonte del diritto. “Tutto il diritto sta in una relazione fondamentale con il problema della contingenza dell’agire umano, vale a dire, con il fatto inconfutabile che gli uomini possono agire anche diversamente da come ci si aspetta” . [16] Da quest’osservazione, Luhmann deduce che la funzione fondamentale del diritto è quella di regolare la contingenza delle azioni umane selezionando le aspettative normative. All’esigenza di stabilizzazione delle aspettative risponde l’istituzione del sistema giuridico e l’introduzione nel contesto sociale di norme che sono percepite come dotate di una specifica funzione e di maggiore efficacia rispetto a quella che si può considerare la normatività pre-giuridica immanente nelle prassi consolidate. “Nelle società maggiormente sviluppate il diritto ha la funzione di generalizzare le aspettative in modo tale che sull’agire contingente si possa decidere in modo vincolante. È per il fatto, e solo per questo, che l’agire è contingente – cioè: potrebbe svolgersi in modo diverso – che si può e si deve eventualmente decidere su di esso. Questa funzione che consiste nel rendere decidibile la contingenza, di fronte alle controversie giuridiche si condensa in una coercizione alla decisione. Il rifiuto della decisione equivale al diniego di giustizia e questo alla perdita di funzione del diritto” . [17] E tuttavia, benché ridotta o regolamentata, grazie al suo trattamento giuridico, la contingenza dell’agire persiste. “La relazione tra sistema della società e sistema giuridico acquista così la forma di un collegamento non contingente di stati di fatto contingenti” . [18] ” . L’unica cosa non contingente, o a contigenza ridotta, è il collegamento tra il sistema dell’agire umano e quello delle decisioni giuridiche. In tal modo, almeno secondo Luhmann, il diritto regolamenta o riduce la contingenza non già attraverso la sua eliminazione, ma invece mediante il suo accrescimento.
In ogni caso, la descrizione luhmanniana del fenomeno giuridico non si limita a collegare il diritto al problema della contingenza, ma constata altresì la persistenza incancellabile di quest’ultima. E tuttavia, l’analisi luhmanniana resta meramente descrittiva ed evita d’interrogarsi sulla portata e sulle ragioni di quest’ineliminabile alone di contingenza, che del diritto – ma non solo del diritto – costituisce la premessa inevitabile. In altri termini, problema della contingenza dell’agire umano non può ridursi all’incertezza e imprevedibilità delle azioni altrui. In questo caso, la contingenza sarebbe un deficit occasionale, magari anche ricorrente, ma sarebbe comunque possibile mettere a confronto la contingenza dell’agire effettivo con il suo modello razionale e necessario, sulla base del quale denunciare e correggere i limiti e le imperfezioni dell’esperienza concreta. Ma è proprio un modello del genere che non esiste. L’agire umano è strutturalmente contingente, non solo perché i comportamenti altrui – e talvolta anche i propri – risultano imprevedibili, ma perché l’agire stesso manca di un modello universale e unitario, al quale dovrebbe potersi sempre e comunque ispirare. E una simile mancanza non deriva da una qualche caratteristica “soggettiva” dell’agire, ma è una mancanza ontologica. In altre parole, è la realtà stessa che non fornisce all’agire umano un suo modello predeterminato, dei criteri universali, dei contenuti stabili. La contingenza dell’agire rimanda dunque all’assenza d’un fondamento oggettivo, esterno alla società e alla storia, che possa costituirne l’unità di misura permanente.