PERIAGOGHÈ . INTORNO ALLE ORIGINI DELLA POLITICA
di Ulderico Pomarici
(Seconda Università di Napoli)

Nella filosofia politica aristotelica la dimensione naturale non è un mero ‘presupposto’. Basti pensare ai luoghi della Politica dove si prescrivono le condizioni naturali perché una Città possa dotarsi di un’ottima costituzione , [32] una Città che voglia raggiungere l’autarkeia. Se la natura va rispettata e ogni azione consegue e va calcolata a partire da essa, ciò non è un’acquisizione semplicemente strategica, bensì anche parametrica, metafisica. Natura è l’alveo all’interno del quale ogni ente si dà, principio e fine, dunque il Bene: “perciò ogni città è un’istituzione naturale, se lo sono anche i tipi di comunità che la precedono, in quanto essa è il loro fine [telos], e la natura di una cosa è il suo fine […]. Ora lo scopo ed il fine sono ciò che vi è di meglio; e l’autosufficienza è un fine e quanto vi è di meglio. Da ciò è dunque chiaro che la città appartiene ai prodotti naturali, che l’uomo è un animale che per natura deve vivere in una città, e che chi non vive in una città, per la sua natura e non per caso, o è un essere inferiore o è più che un uomo”. Dunque la natura è causa nella Città e, proprio per questo, giustizia, giudizio e giusto si allineano lungo un unico asse: “Ma, la giustizia [dikaiosyne] è virtù politica perchè il giudizio [dike] è l’ordine (taxis) della comunità politica: e la giustizia [dikaiosyne] è scelta di ciò che è giusto (tou dikaiou)” . [33] Tutto il discorso che Platone svolge nella Repubblica sulla p??de?a restituisce l’idea che alla natura vada imposta una forma. La libertà naturale in quanto tale porta alla katastrophé. Le forze opposte presenti nella natura, la dimensione ctonia e quella della generazione, attraversano la cultura greca, il teatro nei suoi ‘generi’ e la filosofia, e ne costituiscono motivi decisivi. La natura è ovunque, anche se con diversi registri: nella tragedia, nella commedia, nella filosofia, in Aristofane come in Platone. La centralità del mito dionisiaco nella cultura greca classica esprime proprio il tentativo di formalizzare la relazione individuo-natura nella sua complessità: di esso si parla non solo nelle Baccanti, ma anche negli Uccelli e nelle Leggi. Tutti i ‘registri’, anche se opposti, descrivono il tentativo di tenere insieme le dimensioni fondamentali della physis e del nomos, da ricondurre a un governo comune. Hanno infatti bisogno l’una dell’altro.
Che, rispetto ai filosofi presocratici, la natura debba venir riconsiderata per la sua forma – e la gerarchia tra physis e nomos vada capovolta –, lo mostra anche il racconto socratico dell’origine dello Stato ideale. Non è la Città che deve uniformarsi al ritmo della natura, alla sua legge, ma al contrario. È la natura che, ovunque sia, deve poter essere collocata ordinatamente, secondo taxis per non alterare l’ordine politico. Essa costituisce il punto di partenza – i bisogni – ma non certo l’azione compiuta “in virtù della scelta del meglio”. Pensare equivalenti e interscambiabili physis e nomos, “vuol dire non essere capace di distinguere che altra è la vera causa e altro è il mezzo senza il quale la causa non potrebbe mai esser causa” . [34] Così, paradossalmente è la stessa natura a diventare qui ‘pietra d’inciampo’, richiamante la necessità dello Stato. La natura costringe alla politica, non è politica di per sé. Nessuno basta a se stesso: pragmaticamente, lo Stato non nasce se non dai bisogni. Proprio nella Repubblica, Platone fa dire a Socrate: “Io dissi, credo, che la città nasca perché ciascuno di noi non può certo bastare a sé stesso ma ha bisogno di molti altri” . [35] Ecco che ritorna il mito dell’incompletezza dell’uomo, la sua imperfezione ontologica. Poiché quindi l’individuo non possiede alcuna autarcheia e non basta a sé stesso, ha necessità di unirsi agli altri individui, imperfetti come lui . [36]
Questo è un passaggio importante anche per sfatare la leggenda di una sorta di idealismo platonico. Platone non lo era affatto. La sua teoria dei cicli politici e la critica della democrazia ne attestano l’estremo realismo. Sono i bisogni degli individui e l’impossibilità di soddisfarli individualmente che danno luogo, costituiscono la necessità della politica. Non certo qualche idealtà. La politica non ha in questo senso a priori, ma è una lunga costruzione collettiva, la formazione dell’anima di un popolo. Questo e non altro è il senso dell’isomorfismo fra psichè e polis.

4. Ma alla molteplicità si lega un altro luogo, a mio avviso fondamentale, per comprendere l’origine della dimensione politica nella Grecia (e quindi nella cultura occidentale): quello della critica. La critica del discorso dominante. Qui vorrei fare soltanto un rinvio a quella comunità ideale che incontriamo nel Simposio nel momento in cui interviene Socrate con il suo encomio di Eros. Mentre tutti, uno alla volta seguendo il giro del convivio, esaltano il dio Eros in termini superlativi, Socrate, con una mossa retorica, arresta il fluire dei discorsi precedenti revocandoli in dubbio: “credevo che su ciascuna delle cose da encomiare si dovesse dire la verità”. Quale invece la natura dei discorsi tenuti fin qui? “Al soggetto in questione si doveva attribuire quanto c’è di più grande e più bello, l’avesse o no; che se tutto fosse stato falso non c’era da preoccuparsi” .[37] Ma se le cose devono andare così, allora, “Addio elogio! Perché l’encomio a questo modo io non lo faccio; no, di certo; la verità se volete sono pronto a dirla, come so io senza mettermi in gara coi discorsi vostri” . [38] E attraverso l’imposizione di una ‘palinodia’ inaugura il suo discorso. Un discorso ‘inaudito’ che spiazza tutto l’uditorio perché descrive Eros in termini del tutto opposti a quelli fino a quel momento ascoltati, rendendolo irriconoscibile rispetto alla vulgata. Ricolloca così il corpo e l’anima dentro la politica in modo ben differente dai modi encomiastici di una concezione dell’amore ‘cortigiana’. È con questo gesto critico inaugurale che Socrate interrompe il libero fluire dei discorsi e costituisce l’idea del desiderio in quanto debito. Debito, innanzitutto, di conoscenza. Così, ecco l’idea che mediante Eros, generato da Penìa e Poros, ogni individuo possa trasformare la mancanza da cui nasce come la propria occasione: “perché la generazione è ciò che ci può essere di sempre nascente e di immortale in un mortale” . [39] Questa è l’apertura del climax ascendente verso la conoscenza, a partire da questo vuoto. Ma generare è possibile solo a contatto con ciò che è bello, un bello, soprattutto, che esprima la fecondità non semplicemente del corpo ma dell’anima. E le grandi opere dell’uomo, al vertice del tragitto di iniziazione, costituiscono “la forma di pensiero assai più grande e più bella” che è quella riguardante “l’ordinamento delle Città e delle case e si chiama temperanza” . [40] E veniamo agli ultimi due elementi su cui vorrei soffermarmi. Il primo è un verbo, l’aoristo di katabainein (discendere) che è anche la prima parola della Repubblica. Socrate inizia dicendo: “Discesi al Pireo”. Kateben, un verbo che ritorna nei miti dionisiaci ed è usato da Omero quando racconta la discesa di Odisseo nell’Ade. Potremmo dire che nella grande forza evocativa di questo aoristo viene anticipata tutta la Repubblica. Questa metafora della discesa sigilla, per dir così, il discorso sulla politica. Su questo verbo ha fornito attenzione critica un grande filosofo della politica, Eric Voegelin il quale parlava della politica in Platone (di questa discesa nella caverna) come “l’apertura dell’anima al suo fondamento trascendente dell’ordine” . [41] Che relazione c’è fra politica, anima e trascendente? La kallipolis trascende ogni possibilità di concreta realizzazione, ma sappiamo che non è perciò meno vera, meno degna di essere perseguita. Non solo ciò che può integralmente essere trasposto nella realtà è dunque ‘degno’, ma ciò, soprattutto, che deve essere trasposto. La ‘seconda navigazione’, la scoperta dell’idea, è l’indispensabile complemento della nostra mortalità. “Platone vide immediatamente che, se si considera l’uomo la misura di tutte le cose passibili di essere usate, è l’uomo che usa e strumentalizza, e non l’uomo che parla e fa o l’uomo che pensa, quello a cui deve riferirsi il mondo. E poiché è nella natura dell’uomo che usa e strumentalizza vedere ogni cosa come mezzo rivolto a un fine – ogni albero come legno potenziale – ciò significa che l’uomo diventa la misura non solo delle cose la cui esistenza dipende da lui, ma letteralmente di tutto ciò che esiste” . [42] Noi mortali non siamo caratterizzati, in quanto tali, dal “desiderio del bello”, ciò è cosa degli dèi, ma dal “desiderio di generare e partorire nel bello” . [43] Dunque generazione e finitudine sono la nostra cifra. Finitudine vuol dire: desiderare ciò che non si possiede. Ma perché il desiderio si indirizzi all’agathon è necessaria paideia. Dunque paideia è il ponte – ideale – che unisce la dimensione pubblica alla dimensione invisibile dell’anima. Ideale perché portatrice dell’idea di un governo attraverso logos, grazie all’imbrigliamento di passioni altrimenti ingovernabili. Come si racconta nel Fedro di Platone: il cavallo nero, che simbolizza l’epithumetikon, la cupiditas latina, inclinerebbe naturalmente a delirare, e a rovesciare il governo dell’anima. La verità che sta salda nel logistikon allude inevitabilmente a un possibile possesso della verità da parte del filosofo. Nel legame fra verità e politica, filosofia e politica, c’è indubbiamente una radice essenziale della storia occidentale di questo concetto, nonché una radice delle sue tragedie. Questo non va misconosciuto. Il mito della caverna costruisce un percorso di conoscenza in varie fasi che deve concludersi con un’ascesa verso la luce dell’agathon non puramente gnoseologica, ma allusiva di una periagoghè, una rivoluzione integrale dell’individuo realizzata dall’educazione: “tutto il nostro discorso significa che questa facoltà inerente all’anima di ognuno e l’organo con il quale ciascuno apprende – alla maniera di un occhio incapace di volgersi dall’oscurità alla luce se non insieme con l’intero corpo – devono venir fatti ruotare…” . [44] Dunque, un rivolgimento dell’intero individuo. Conoscenza e politica per Platone non sono artificiosamente separabili, al contrario. Sono necessariamente complementari. Non è dunque certo ‘neutro’ il fine del percorso di conoscenza, la visione di quella luce che rappresenta l’idea del bene, l’agathon. Che conclude poi nel pilastro della concezione politica occidentale, nell’idea del filosofo-re, il frutto più alto e problematico del percorso iniziatico della paideia. Un’unica via conduce dalla caverna verso la luce dell’agathon, ma questa via è necessario percorrerla, poi, a ritroso, per chi è asceso verso il Bene. All’anà deve succedere il katà. Chi ha percorso il cammino della conoscenza deve anche saper tornare indietro. Questa necessità etica è il gesto squisitamente politico: salvare l’intera comunità ancora incatenata alla doxa perché anche essa possa ascendere verso la conoscenza dell’agathon. Così, sembra che la verità sia duplice: non si dà completamente se non ripercorrendo all’indietro quel cammino di iniziazione in vista degli altri. È stato notato [45] che nel momento in cui lo sguardo dalla luce entra nel buio mostra la stessa incertezza dello sguardo che dal buio passa alla luce. Accecato nello stesso modo. Apparentemente uguale. Ma questo accecamento, quando si scende nella caverna, è sintomo di un pericolo mortale, pericolo che corre colui che ritorna per realizzare in una qualche forma la verità a cui si è accostato. Questa è in un certo senso la prova politica suprema, che mette a rischio la vita stessa degli archontes. Alla conoscenza si ribellano, infatti, coloro che sono ancora schiavi delle tenebre: “E chi tentasse di scioglierli e di portarli su, se mai potessero afferrarl[i] con le mani, non l[i] ucciderebbero?” . [46]

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