LA RICERCA DELLA VERITÀ NEL PROCESSO: UNA PROSPETTIVA SCOLASTICA
di Elvio Ancona

Sul punto Tommaso si sofferma diffusamente nella seconda risposta dell’art. 263, ma egli se ne era già occupato in precedenza, nella quaestio 105 della Prima secundae, offrendoci, nell’ambito di una discussione sulle pratiche giudiziarie degli antichi Ebrei, un’altra interessante riflessione sulla probabilitas del sapere attingibile in base a testimonianze: «nelle vicende umane non si può avere una prova [probatio] dimostrativa e infallibile, ma è sufficiente una qualche probabilità congetturale [aliqua coniecturalis probabilitas], quella di cui si serve il retore per persuadere. Pertanto, sebbene sia possibile che due o tre testimoni possano accordarsi nel dichiarare il falso, non è tuttavia né facile né probabile che questo accada; e perciò si assume la loro deposizione come vera [accipitur eorum testimonium tanquam verum]; specialmente se in essa non manifestino tentennamenti o non siano sospetti per altri motivi. E affiché i testimoni non si discostassero facilmente dalla verità, la legge dispose che essi fossero esaminati con la massima diligenza e, se trovati mendaci, venissero severamente puniti, come prescrive il diciannovesimo capitolo del Deuteronomio»64.

Con la delineazione di quest’ultima precauzione, abbiamo ormai a disposizione tutti gli elementi per una ricostruzione della concezione tomistica della conoscenza attraverso testimonianze quale emerge dalla lettura della Summa theologiae. Possiamo pertanto richiamare nei seguenti punti quelle che risultano esserne le principali tesi: 1 – Nelle deposizioni sugli atti umani che hanno luogo nei processi si dà solo una certitudo probabilis, che attinge la verità nella maggior parte dei casi, ma non sempre. 2 – La probabilità di una testimonianza può essere maggiore o minore. Ci può essere quindi più o meno certezza, e, dal punto di vista dei contenuti, più o meno verità, ovvero una quantità maggiore o minore di dichiarazioni vere, in una deposizione. 3 – Una probabilità contraria rende inefficace la testimonianza. 4 – Occorre controllare attentamente se non esistano prove contrarie, ovvero se i testimoni siano attendibili e se le deposizioni siano concordanti. 5 – In mancanza di prove contrarie, una testimonianza probabile può essere assunta come veritiera.
Una ricostruzione simile appare peraltro consentita anche da una pagina della reportatio super Evangelium Johannis, di taglio ovviamente esegetico e quindi di genere molto diverso da quello teologico-speculativo connotante la discussione della Summa, eppure forse ancora più interessante in quanto in essa Tommaso si sofferma sulle caratteristiche della testimonianza suprema per la fede cristiana, la testimonianza che Gesù dà di se stesso. Per l’esattezza è qui in commento il passo in cui il Cristo afferma che Egli non è l’unico a dare testimonianza di sé, poiché accanto a Lui c’è il Padre che Gli rende testimonianza, cosicché l’Aquinate si trova ad affrontare il problema se possa essere ritenuta vera la testimonianza di due sole persone, come è previsto dal Deuteronomio. Il problema, la magna quaestio, era già stata sollevata da Agostino nel suo omologo tractatus, e Tommaso, secondo il consueto stile disputativo, introduce la propria spiegazione richiamandone i termini: «Può darsi infatti che tutte e due mentiscano. La casta Susanna, per esempio, fu accusata da due falsi testimoni, come si legge nel Libro di Daniele, XIII, 5, ss. Inoltre, fu l’intero popolo a mentire contro Cristo»65. Nella responsio ritorna il tema della conoscenza probabile: «La proposizione menzionata – “la testimonianza di due uomini è vera [duorum hominum testimonium verum est]” – è da intendersi nel senso che una siffatta testimonianza deve essere considerata per vera in giudizio [pro vero in iudicio est habendum]. Ciò è dovuto al fatto che circa le azioni umane non si può raggiungere una vera certezza [vera certitudo] e ci si deve quindi attenere a quanto risulta più certo [certius] in base al numero dei testimoni; infatti è più probabile [magis enim est probabile] che mentisca uno solo piuttosto che molti. Donde la frase dell’Ecclesiaste, IV, 12: “Una fune tripla difficilmente si rompe”»66.
Vale la pena di riportare anche la conclusione del ragionamento, che compiutamente ne manifesta il significato trinitario e cristologico: «Tuttavia l’affermazione della Scrittura, “Tutto si deciderà sulla parola di due o tre testimoni”, ci conduce, come nota Agostino, alla considerazione della Trinità, nella quale si trova la perpetua stabilità della verità, da cui tutte le altre verità derivano [perpetua stabilitas veritatis, a qua omnes veritates derivantur]. Il testo parla infatti di due o tre, perché nella Sacra Scrittura talora vengono nominate tre Persone, talora due soltanto, ma in queste due è implicito anche lo Spirito Santo, che è il loro reciproco legame. “Se dunque la testimonianza di due o tre uomini è vera, è vera anche la mia testimonianza, perché sia io rendo testimonianza a me stesso, sia il Padre che mi ha mandato”. In precedenza (V, 36) aveva detto: “Io possiedo una testimonianza superiore a quella di Giovanni”»67.
Vediamo bene qui come anche relativamente al riconoscimento della missione apostolica di Cristo si possa registrare l’intervento di una pluralità di testimoni68. L’importanza del passo eccede tuttavia per noi il suo interesse esegetico: in questa pagina tutta la concezione sovraesposta della conoscenza non solo viene riproposta, ma trova l’attestazione più autorevole. Da un lato, infatti, la considerazione del modello trinitario vale a confermare al livello più alto la portata aletica di ogni triplice – o duplice – testimonianza; dall’altro, per contrasto con la perpetua stabilitas della divina verità, porta a ribadire la relativa insicurezza delle verità umane, incluse quelle che vengono accertate in iudicio. Anche in base al paragone con la testimonianza trinitaria, dunque, possiamo dire che nei nostri processi si dà solo una conoscenza probabile della verità dei fatti in questione.

5. Il metodo della ricerca della verità – Ma come possiamo pervenire a questo tipo di conoscenza? Qual è cioè il metodo che conviene all’ambito del probabilis?
Per rispondere a queste domande dobbiamo considerare innanzitutto il significato dell’aggettivo probabilis.
Probabilis è nel lessico tomistico, come peraltro in quello scolastico, termine analogo, che viene detto in molti modi69. Probabile pluris modis dicitur, affermava già nel XII secolo l’ignoto autore della Summa Sophisticorum Elenchorum70. Per limitarci al solo tema in discussione, esaminando quindi specificamente la sua relazione semantica con la verità negli scritti dell’Aquinate71, possiamo sostanzialmente distinguere tre accezioni della parola: per l’esattezza, con questa particolare connotazione, probabilis designa la qualità di una propositio – o una ratio o un’opinio – , sia in quanto “ha buone possibilità per essere vera”72, sia in quanto “è vera nella maggior parte dei casi”, ut in pluribus73, sia in quanto “è parzialmente vera”74. Più generalmente, probabilis è tutto questo (una propositio, una ratio o un’opinio che possieda uno di questi tre significati) nella misura in cui “può essere provato”, avvalorato da probationes75: dunque, ciò che, pur non potendo dirsi assolutamente vero, può nondimeno essere sostenuto da qualche prova, ovvero ciò che, pur potendo essere sostenuto da qualche prova, non può dirsi assolutamente vero. Di conseguenza, probabilis deve considerarsi anche la conclusione che, sebbene ben motivata, non può essere assunta come indubitabilmente certa poiché non esclude la contraddittoria: si fonda infatti su premesse esse stesse probabili e genera, al massimo, opinio76, non scientia. Si tratta precisamente della conclusione cui secondo l’Aquinate si perviene al termine dell’argomentazione che egli, riprendendo la terminologia e l’insegnamento di Aristotele, denomina syllogismus dialecticus e che, avendo luogo in un contesto disputativo, deve essere tenuta ben distinta dal syllogismus demonstrativus. La conoscenza probabilis ci si prospetta pertanto come il frutto di un’argomentazione dialettica, cosicché è proprio in questa particolare forma di ragionamento che possiamo infine riconoscere il metodo ad essa conducente. Tommaso lo manifesta chiaramente allorché si sofferma sui tratti distintivi dell’operazione più rappresentativa della dialettica, l’inventio. 7778
L’inventio, il rinvenimento delle soluzioni dei problemi dialettici, è l’esito di quell’inquisitio rationis79 che non si rapporta alla verità per modum demonstrationis ma per modum disputationis, non risolve nei primi principi ciò che scopre ma mantiene la porta aperta all’alternativa, non produce scientia ma opinio o fides, ed opera in questo modo appunto perché – sostiene Tommaso – per probabiles rationes proceditur80. Dunque, se la dialettica, la metodologia della conoscenza probabilis, è innanzitutto via inventionis81, ovvero, come la caratterizza il maestro domenicano, ordinatur ad inquisitionem inventivam82, si deve constatare che l’inventio presenta effettivamente i suoi stessi connotati epistemici, al punto da poter essere detta – per usare le parole del Gardeil – “la place naturelle” della probabilità83.
Non stupisce allora che nella sistemazione tomistica della logica esposta nel prologo all’Expositio libri Posteriorum la pars inventiva risulti opposta alla pars iudicativa come l’ambito della conoscenza probabile a quello della conoscenza certa84. Ciò che invece stupisce, al punto da richiedere un necessario approfondimento, è riscontrare che vi siano casi in cui la probabilità giunge ad investire lo stesso esercizio del iudicium. Questo dato in realtà lo avevamo già ampiamente rilevato85, ma ad attrarre la nostra attenzione è ora il fatto che talvolta il iudicium sia ritenuto probabile anche quando espressamente opposto a ragionamenti di tipo inventivo. È quanto si verifica nel corso di una trattazione sulle virtù e i doni contenuta nella distinctio 34 del commento alle Sentenze, discussione che si sviluppa appunto attraverso la considerazione della prudenza e dei suoi atti essenziali, il consilium o inventio, il iudicium e il praeceptum, i primi due simmetricamente corrispondenti alle analoghe operazioni della ratio speculativa: ebbene l’Aquinate asserisce che è proprio del modus humanus di dirigere l’azione – prescindendo quindi dall’intervento dello Spirito Santo – «che si giudichi in base ad argomenti probabili [judicet probabiliter], a partire dalle cose che sogliono accadere frequentemente, ciò che è stato rinvenuto con il consilium [de inventis per consilium]»86.

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