Un processo senza verità?
di Elvio Ancona

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È POSSIBILE NON PARLARE DI VERITÀ NEL PROCESSO (ED IN PARTICOLARE NEL PROCESSO PENALE)?*

Due casi imbarazzanti – Ci sono almeno due “casi” che anche i più accaniti negatori della rilevanza della “verità sui fatti” nel mondo del diritto, e in particolare nel mondo del processo, non possono non considerare senza un qualche imbarazzo: quello relativo alla tutela delle vittime, implicante il concetto di qualcuno che ha subito il fatto, e quello relativo alla protezione dell’innocente, implicante il concetto di qualcuno che viene incolpato per un fatto che non ha commesso.
In entrambi questi “casi” non può essere considerato secondario accertare il “fatto”, ciò che è “veramente” accaduto.

Non è secondario che olocausti e genocidi siano stati realmente commessi o meno: non lo è, almeno per le vittime, o per i sopravvissuti. Su questi temi non si può scherzare! E infatti non si scherza. Lo prova la vicenda dell’antinegazionismo giuridico, che ha visto i processi e le condanne di Faurisson (1983), Garaudy (1996) e Irving (2006)1. Non è lecito negare infondatamente che crimini così macroscopici e di tale impatto sociale siano stati commessi. È, in effetti, rendersene complici. Quando si parla di certi fatti, non si può dire che potrebbero anche non essersi verificati. Alle vittime di un genocidio non si può dire che potrebbero anche non essere tali. Ma questo, a prescindere dalla questione della punibilità del negazionismo, vale in realtà per le vittime di qualsiasi reato. Si tratti di un intero popolo o di una singola persona, per chi è vittima non è purtroppo secondario esserlo veramente o non esserlo.

Così come non è secondario che sia condannato un innocente. In un libro dedicato a delineare una risposta efficace alla sfida del terrorismo, uno dei più noti penalisti statunitensi, Alan Dershowitz, ricorda che ogni bambino americano impara a scuola la massima fondamentale secondo cui “è meglio che dieci criminali colpevoli finiscano liberi, piuttosto che condannare anche una sola persona innocente”2. Dershowitz ricorda altresì che non si tratta appena di un principio del common law, poiché già molti secoli prima della formazione di questa importante tradizione giuridica il filosofo e medico ebraico Maimonide scrisse che era meglio, e più auspicabile, che fossero liberati mille peccatori piuttosto che venisse ucciso un solo innocente3. La regola della protezione dell’innocente non è solo dunque uno dei pilastri dei sistemi giudiziari penali vigenti nelle odierne società democratiche, ma è principio giuridico fondamentale in ogni epoca. Eppure, se la verità non esistesse o non potesse essere affatto conosciuta, che ne sarebbe di tale principio? Lo stato di colpevolezza, lungi dal dover essere accertato al di là di ogni ragionevole dubbio, non verrebbe determinato che sulla base di un’apparenza momentanea, o della convenienza sociale, o, più semplicemente, delle simpatie dell’organo giudicante.

Entrambi i “casi” ci mostrano pertanto che non si può prescindere nel processo, e soprattutto nel processo penale, da un accertamento, il più accurato e scrupoloso, della verità sui fatti.
Quale verità – “Verità” è però un termine che si può dire in tanti modi, che nella sua prurimillenaria storia ha acquisito molteplici significati, è stato concettualizzato dai punti di vista più diversi, ed anche opposti, cosicché a questo punto dobbiamo chiederci: ma, precisamente, di quale verità stiamo parlando?
Non certamente della cosiddetta “verità processuale” o “giudiziale”, intesa come il risultato del processo, quale viene fissato nella decisione della sentenza4. Questa cosiddetta “verità”, infatti, potrebbe non essere altro che l’opinione provvisoriamente prevalente, fosse pure quella del giudice terzo e imparziale, e non aver niente a che fare con ciò che è realmente accaduto e che è in discussione nel processo.
Si tratta invece di una verità che rappresenti il più fedelmente possibile i fatti della causa, una verità dunque intesa come corrispondenza con la realtà.
Se infatti il processo deve essere giusto, come prescrive il novellato art. 111 Cost., non ci può essere giustizia senza questo tipo di verità. Come sostiene un’autorevole dottrina5, non vi può essere infatti giusto processo senza giusta decisione. E, come più volte rilevato dalla nostra Corte Costituzionale6, non vi può essere decisione giusta senza un accertamento veritiero dei fatti della causa7. Ma questa conclusione a sua volta implica inevitabilmente che tra gli scopi del processo vi sia almeno la ricerca di una corrispondenza fra l’accertamento giudiziale dei fatti e gli eventi del mondo reale cui la decisione si riferisce.

Una verità probabile – A questo punto occorre fare una precisazione importante, a fronte della possibile obiezione circa l’effettiva conoscibilità di tale corrispondenza.
La corrispondenza con la realtà non può certo intendersi in termini di realismo ingenuo come dato immediatamente osservabile, quanto piuttosto in termini di realismo critico come criterio di verificazione8 e come valore teorico di riferimento degli enunciati fattuali che devono essere provati. Legittimandone l’accoglimento o il rigetto sulla base della conformità con gli enunciati probatori, la corrispondenza funge non solo da principio regolativo della decisione giudiziale sul fatto9, ma altresì quale suo principio orientativo, perlomeno nella misura in cui ogni giustificata revisione delle precedenti conoscenze possa considerarsi come un passo avanti nel cammino che conduce alla verità. Possono pertanto esservi gradi diversi di approssimazione allo stato di corrispondenza assoluta che rappresenta il valore teorico di riferimento, ovvero – per usare il linguaggio giuridico – gradi diversi di corrispondenza del giudizio di fatto alla realtà empirica dei fatti rilevanti. Come nota Taruffo, «il riferimento al valore teorico della corrispondenza assoluta, come all’altro estremo della non-corrispondenza, serve a distinguere i gradi di approssimazione che si realizzano nel processo e a stabilire quando vi sono incrementi o diminuzioni nell’approssimazione, o ancora a determinare il criterio di scelta tra più descrizioni diverse dello
stesso fatto»10. In base a tale valore di riferimento, quindi, non possiamo sapere con assoluta certezza se un enunciato è vero11, ma possiamo sapere quando, sulla base della probabilità logica prevalente, un enunciato è preferibile ad un altro12: allorché, ad esempio, nel processo un’ipotesi decisoria si dimostra capace di spiegare più soddisfacentemente l’insieme delle risultanze proceduralmente conseguite ed è confermata dal maggior numero di prove raccolte.
In questa prospettiva, anche la regola dell’“oltre il ragionevole dubbio” dovrebbe essere intesa come asserito dalle Sezioni Unite in una celebre sentenza13, quale prescrittiva di un’“elevata probabilità logica” o di un “alto grado di credibilità razionale”.

Si affaccia qui il concetto di “verità probabile”, da intendersi come la verità dell’ipotesi ricostruttiva dell’avvenimento concreto in questione che, allo stato delle conoscenze, più probabilmente corrisponde alla realtà14.
La verità rinnegata – Ai nostri giorni, però, questa concezione della verità – antichissima, in quanto affonda le sue radici nella filosofia classica, aristotelico-tomista, – risulta essere spesso respinta, anche nel campo del diritto. Accodandosi alle mode culturali dello scetticismo e del relativismo postmoderni, anche i giuristi nostrani hanno cominciato a ritenere insuperabile la separazione tra qualunque forma di conoscenza, scientifica e non scientifica, e la realtà del mondo esterno, di cui non si potrebbero dare quindi descrizioni verititere. E spesso capita di assistere a convegni di argomento processuale in cui, quando si parla di verità e si vuole sentire il parere del filosofo, si invitano autori quali Gianni Vattimo, Adelino Cattani o Eligio Resta, tanto per fare nomi, che non sanno che riproporre le tesi di Nietsche e di Rorty, secondo cui la verità dovrebbe essere bandita dal discorso filosofico, e quindi da ogni discorso, o che di essa si potrebbe al massimo parlare in termini “stipulativi e convenzionali”15.

Con questo straordinario paradosso: che mentre queste tesi vengono da noi ripoposte per mostrare di essere “al passo coi tempi”, e di non essere isolati rispetto ai paesi in cui la ricerca filosofica sembra più avanzata, proprio in quei paesi oggi queste stesse tesi sono apertamente contestate, ed anzi recisamente confutate: si pensi, tanto per fare un esempio, alla critica demolitrice che oltreoceano epistemologi quali Susan Haack, Alvin Goldman e Bernard Williams stanno rivolgendo al pensiero di Rorty16.
Forse bisognerebbe essere un po’ più aggiornati… La verità necessaria – Tuttavia al di là della discussione sul piano epistemologico, è un problema giuridico quello su cui in conclusione vorrei attirare l’attenzione. Ritorniamo dunque ai due “casi imbarazzanti” da cui abbiamo preso l’abbrivio e proviamo a riflettere…
Se la verità non ci fosse, se non ci fosse la verità come corrispondenza con la realtà dei fatti, che ne sarebbe della differenza tra innocenza e colpevolezza, tra persecutore e vittima? Dobbiamo necessariamente rispondere che si tratterebbe di una differenza essa stessa puramente stipulativa e convenzionale.
Ma in realtà se la verità sui fatti non ci fosse, non avrebbe neanche più senso parlare di innocenza e colpevolezza, di vittime e persecutori. Non avrebbe più senso neanche il processo se non per accertare la soluzione più favorevole a chi detiene il potere. Il diritto non sarebbe che l’opinione prevalente, e quindi puro strumento del potere, il “vestito” – come scrive efficacemente Francesco Gentile17 – della forza uscita vincente dal conflitto sociale.
Un’esemplificazione – Tutto ciò può essere illustrato efficacemente da un’esemplificazione in cui i due “casi imbarazzanti” convergono.
Il “glorioso accusatore” dei grandi processi sovietici tra il 1918 e il 1922, Krylenko, così presentava la politica penale del Governo rivoluzionario: “Le finezze giuridiche non occorrono, perché non occorre chiarire se l’imputato sia colpevole o innocente: il concetto di colpevolezza, vecchio concetto borghese, è stato adesso sradicato”; “un Tribunale è un organo della lotta di classe” e deve funzionare applicando un unico metodo di valutazione, cioè il metodo della convenienza di classe; e “se tale convenienza esige che la spada punitrice cada sulla testa degli imputati, non servirà nessuna argomentazione verbale”18.

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