CASI GIURISPRUDENZIALI IN MATERIA DI MULTICULTURALISMO
di Aurelio Barazzetta

Sez. 6, Sentenza n. 3419 del 09/11/2006 Ud. (dep. 30/01/2007 ) Rv. 235337 Presidente: De Roberto G. Estensore: Milo N. Imputato: Bel Baida. P.M. Viglietta G. (Conf.) Configura il delitto di maltrattamenti previsto dall’art. 572 cod. pen. la condotta di chi, avuto in consegna un minore allo scopo di accudirlo, educarlo ed avviarlo ad una istruzione, consente che viva in stato di abbandono in strada, per vendere piccoli oggetti e chiedere l’elemosina, appropriandosi poi del ricavato e disinteressandosi del suo stato di malnutrizione e delle situazioni di pericolo fisico e morale cui egli si trovi esposto: si tratta infatti di una condotta lesiva dell’integrità fisica e morale del minore, idonea a determinare una situazione di sofferenza, di cui va ritenuto responsabile chiunque ne abbia l’affidamento.

Sez. 6, Sentenza n. 3419 del 2007

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Udienza pubblica
Dott. DE ROBERTO Giovanni – Presidente – del 09/11/2006
Dott. DI VIRGINIO Adolfo – Consigliere – SENTENZA
Dott. MILO Nicola – Consigliere – N. 1403
Dott. CONTI Giovanni – Consigliere – REGISTRO GENERALE
Dott. DI CASOLA Carlo – Consigliere – N. 20474/2006

ha pronunciato la seguente sentenza:

sul ricorso proposto da Bel Balda Bouabid nato il 26.10.1971 avverso la sentenza 20/6/2005 della Corte d’Appello di Torino; Visti gli atti, la sentenza denunziata e il ricorso; Udita in pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere Dr. Nicola Milo;  Udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale Dr. Viglietta G., che ha concluso per il rigetto del ricorso; udito il difensore avv. non è comparso.

FATTO E DIRITTO

La Corte d’Appello di Torino, con sentenza 20.6.2005, confermava quella in data 25.1.2001 del GUP del Tribunale della stessa città, che, all’esito del giudizio abbreviato, aveva dichiarato Bel Baida Bouabid colpevole del delitto di cui all’art. 572 c.p. e, in concorso delle circostanze attenuanti generiche, lo aveva condannato alla pena, condizionalmente sospesa, di mesi cinque e giorni dieci di reclusione. L’addebito specifico mosso all’imputato è di avere maltrattato, nel periodo dicembre 1999 – aprile 2000, il minore infraquattordicenne El Quadouk Yassine (nipote), con lui convivente e affidato alle sue cure, consentendo che lo stesso rimasse abitualmente in giro per l’intera giornata a vendere piccoli oggetti per le strade di Torino, disinteressandosi della condizione di sofferenza in cui il minore versava (malnutrizione, esposizione ai rigori invernali con abbigliamento inadeguato, stato di isolamento, mancata frequentazione della scuola) e appropriandosi del ricavato del commercio ambulante da costui praticato. La Corte territoriale, sulla base di quanto accertato dalla Polizia municipale, che aveva seguito per diversi giorni le abitudini di vita del minore e ne aveva constatato la condizione di degrado fisico e psichico in cui lo stesso versava, nonché sulla base della relazione di servizio 19.4.2000 del mediatore culturale Sucol, che aveva raccolto lo sfogo del minore sul profondo disagio avvertito per l’intollerabile regime di vita impostogli, riteneva integrati gli estremi del delitto di maltrattamenti sia sotto il profilo oggettivo che sotto quello soggettivo, sottolineando, in particolare, che l’imputato era venuto meno ai suoi obblighi di cura e di vigilanza del minore a lui affidato e non si era – anzi – fatto scrupolo di trarre un utile economico dall’attività di commercio ambulante e di accattonaggio praticata sistematicamente dal minore stesso. Ha proposto ricorso per Cassazione, tramite il proprio difensore, l’imputato, deducendo l’erronea applicazione della legge penale e il vizio di motivazione sotto vari profili: = non si era provato il danno, quale evento imprescindibile del reato di maltrattamenti, che non poteva ritenersi integrato dalla semplice pratica dell’accattonaggio; = era difettata la prova di una condotta abituale finalizzata ad imporre al soggetto passivo un sistema di vita mortificante e non tollerabile; = il malessere avvertito dal minore non poteva, di per sé, integrare la prova del reato contestato e, più specificamente, della ricollegabilità di tale malessere al comportamento del prevenuto; = l’affermazione che lo sfruttamento del minore sarebbe stato preventivamente programmato rimaneva un mera congettura; = il fatto contestato doveva, al limite, essere inquadrato nella meno grave previsione contravvenzionale di cui all’art. 671 c.p.; = doveva comunque essergli riconosciuta l’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 1, in considerazione dei notevoli sacrifici da lui affrontati per conciliare i gravosi impegni lavorativi (pesanti turni di lavoro, quale dipendente Fiat) con la vigilanza sul minore affidato alle sue cure.

Il ricorso non è fondato.
La Corte di merito ha così ricostruito, in punto di fatto, la vicenda: il piccolo Yassine, di origine marocchina, era stato affidato dai suoi genitori, perché studiasse in Italia, allo zio Bel Baida Bouabid, pure di origine magrebina, che da tempo risiedeva e lavorava in Torino; il minore, però, una volta giunto nel nostro Paese, non era stato inserito in alcun ambiente scolastico ed era stato sostanzialmente abbandonato a sè stesso, senza ricevere dallo zio quella guida e quelle cure necessarie ad assicurargli una sana ed equilibrata crescita; Yassine, infatti, come direttamente constatato dalla Squadra minori della Polizia municipale di Torino, trascorreva l’intera giornata fuori casa e girovagava, malvestito, per le strade cittadine, praticando il commercio ambulante di fazzoletti e l’accattonaggio, veniva qualche volta rifocillato dal gestore o da avventori di un bar, il ragazzo consegnava il magro guadagno che giornalmente riusciva a realizzare allo zio a titolo di rimborso della somma che costui aveva anticipato per farlo venire in Italia e di contributo per il posto letto e per il pasto serale; Yassine, nel corso dell’incontro avuto con il mediatore culturale Sucol, aveva manifestato tutto il suo malessere per lo stato d’isolamento in cui viveva e il desiderio di essere inserito in una comunità lontana da Torino, proprio per tirarsi fuori dalla situazione in cui, sino a quel momento, era stato costretto. Ciò posto, osserva la Corte che correttamente il giudice a quo ha ravvisato, in tali dati di fatto, gli estremi del delitto di maltrattamenti, ascrivibile soggettivamente a Bel Baida Bouabid. Costui aveva avuto in affidamento il nipote, per farlo studiare in Italia, e quindi aveva assunto l’obbligo di curarlo e vigilarlo; in ogni caso, si era prestato a tenere con sé il ragazzo, con l’effetto che si erano instaurate tra i due strette relazioni e consuetudini di vita, che avevano generato un naturale rapporto di assistenza e solidarietà, i cui connessi doveri gravavano essenzialmente – com’è intuibile – sulla persona adulta. Sussisteva, quindi, quella relazione qualificata tra soggetto attivo e passivo richiesta dalla previsione normativa dell’art. 572 c.p., che delinea un reato considerato, di regola, “proprio”, in quanto si concretizza solo nell’ambito di relazioni familiari o rapporti fondati sulla autorità o su precise ragioni di affidamento. Fa eccezione l’ipotesi, pure prevista, che vede come soggetto passivo il “minore degli anni quattordici”, con riferimento al quale si prescinde dalla relazione qualificata con il soggetto attivo; ma anche quest’ultimo requisito ricorre nella fattispecie in esame, considerato che Yassine, essendo nato nel 1986, non aveva ancora compiuto – all’epoca dei fatti – i quattordici anni, con la conseguenza che, nel caso concreto, sussiste una doppia ragione per ritenere compatibile con la struttura del reato contestato il rapporto tra i soggetti che ne sono rimasti coinvolti. L’oggetto della tutela apprestata dalla norma incriminatrice non è solo l’interesse dello Stato a salvaguardare la famiglia, intesa in senso lato, ma è anche, più specificamente, l’interesse del soggetto passivo al rispetto della sua personalità nello svolgimento di un rapporto fondato su vincoli familiari o sull’autorità o su specifiche ragioni di affidamento che lo legano a una persona in posizione di preminenza ovvero, se si tratta di infraquattordicenne, anche nell’ambito di un semplice rapporto di frequentazione comunque instaurato con l’agente. Non v’è dubbio che i fatti, così come ricostruiti dal giudice di merito, integrino la condotta tipica del delitto di maltrattamenti, perché lesivi dell’integrità fisica e del patrimonio morale del soggetto passivo, incapace – per la tenera età – di una qualunque reazione autonoma, e tali da rendere abitualmente dolorosa la relazione del medesimo con l’agente. La tutela del minore, in quanto soggetto particolarmente fragile, non deve incontrare limiti di alcun genere e deve essere orientata a garantire comunque la protezione del medesimo, ponendolo nella condizione di non vivere l’isolamento o l’abbandono, di non essere sottratto agli interessi propri della sua età e di affrontare le tappe della crescita, col supporto del soggetto affidatario, in modo equilibrato e sano.
Posto che la norma, in quanto tutela la normale tollerabilità della convivenza, non richiede una totale soggezione della vittima all’agente, è evidente che imporre al minore o anche semplicemente consentirgli un sistema di vita non adeguato alle sue esigenze e anzi in contrasto con queste, lasciandolo esposto sistematicamente ai rischi della vita di strada, all’aggressione dei valori di decoro, di libertà morale, di integrità psichica e fisica ai quali ha diritto, facendogli avvertire il sostanziale disinteresse di chi dovrebbe proteggerlo e i avere cura di lui e, quindi, il senso della solitudine e dell’abbandono, significa determinare nella vittima uno stato di sofferenza fisica e morale, avvertito, proprio perché frutto di una condizione abituale e persistente, come intollerabile. L’offensività del bene protetto dalla norma di cui all’art. 572 c.p. si attua nel momento in cui si crea per la persona offesa la situazione di sofferenza in cui è costretta a vivere. Il verificarsi di tale situazione integra l’evento del delitto e non si richiede che dalla stessa derivi un ulteriore danno alla integrità fisica o psichica del soggetto passivo. È il caso di sottolineare che il reato, a forma liberta, può essere integrato non soltanto da condotte commissive, ma anche da condotte omissive. Rientra certamente in queste ultime la condotta della persona che costantemente si disinteressi del minore affidato alle sue cure e alla sua vigilanza. Quanto all’elemento soggettivo, non è richiesta una particolare finalità della condotta del reo, ma è sufficiente che sussistano la coscienza e la volontà di determinare nel soggetto passivo uno stato continuativo e abituale di sofferenza. Non è necessario che nell’agente vi sia una preventiva rappresentazione e volontà della situazione che andrà a determinarsi, ma è sufficiente che, nel momento in cui questa comincia a profilarsi con una certa consistenza, l’autore si renda conto che, persistendo nel suo comportamento commissivo od omissivo, infliggerà una ingiusta sofferenza al soggetto passivo. E, nel caso in esame, l’imputato, come puntualmente rilevato dal giudice di merito, si rese certamente conto dello stato di grave sofferenza inflitto al nipote, non fosse altro perché, disinteressandosi completamente delle sorti del medesimo, se non per incamerare i magri guadagni del commercio ambulante e dell’accattonaggio praticati, era ben consapevole del degradato e mortificante regime di vita di Yassine; l’imputato aveva, invece, il dovere di non consentire che ciò si verificasse. Né può evocarsi, per ritenere scriminato o semplicemente attenuanti ex art. 62 n. 1 c.p. il reato di maltrattamenti, “l’etica dell’uomo”, affermata sostanzialmente, sia pure in maniera criptica, sulla base di opzioni subculturali relative a ordinamenti diversi dal nostro. Tale riferimento a principi di una cultura arretrata e poco sensibile alla valorizzazione e alla salvaguardi dell’infanzia deve cedere il passo, nell’ambito della giurisdizione italiana, ai principi base del nostro ordinamento e, in particolare, ai principi della tutela dei diritti inviolabili dell’uomo sanciti dall’art. 2 Cost., i quali trovano specifica considerazione in tema di rapporti etico-sociali nell’art. 29 Cost. (“La Repubblica riconosce i diritti della famiglia …”) e art. 31 Cost. (La Repubblica … protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù …”). Il fatto non può essere ricondotto, come pure si sollecita in ricorso, nella fattispecie contravvenzionale di cui all’art. 671 c.p.. Questa meno grave previsione punisce l’impiego di minore nell’accattonaggio da parte di chi su di essi ha autorità, custodia o vigilanza, rappresenta un minus rispetto a quella di cui all’art. 572 c.p. e può eventualmente con essa concorrere. Nella specie, non si versa nella ipotesi contravvenzionale, posta a tutela dei beni dell’ordine pubblico e della pubblica tranquillità e finalizzata a prevenire il degrado morale dei soggetti non imputabili e dei minori in particolare, ma in quella delittuosa dei maltrattamenti verso fanciulli, considerato che l’accattonaggio praticato dal piccolo Yassine è l’espressione di una più complessa condizione di vita riservata al medesimo e caratterizzata da mancanza di effettività familiare, da sofferenze fisiche e psicologiche, da mortificazioni di ogni genere. Il ricorso deve, pertanto, essere rigettato. Consegue, di diritto, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 9 novembre 2006.
Depositato in Cancelleria il 30 gennaio 2007

 

 

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