CASI GIURISPRUDENZIALI IN MATERIA DI MULTICULTURALISMO
di Aurelio Barazzetta

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CASI GIURISPRUDENZIALI IN MATERIA DI MULTICULTURALISMO   

1 Fenomeno migratorio e ordinamenti statali.   

Non è dubbio che il sorgere o il progressivo intensificarsi, all’interno degli ordinamenti nazionali, di un problema di “multiculturalismo” sia da porsi in stretta correlazione con il progressivo intensificarsi dei fenomeni migratori. Essi vanno correlati a fattori che, in tempi recenti, si sono rapidamente incrementati quali la facilità di spostamento delle persone, il moltiplicarsi dei mezzi di trasporto in grado di agevolare il passaggio di numerosi individui da uno ad altro Paese o continente, i differenti tassi di ricchezza e natalità tra Nord e Sud del pianeta, il sempre maggior crescente bisogno di mano d’opera attinta da paesi poveri rispetto a lavori socialmente meno appetiti dalle popolazioni di paesi economicamente più progrediti [1].Il fenomeno ha avuto come effetto indotto quello di rendere maggiormente evidente ed accentuare in maniera ancora più vistosa la diversificazione ideologica e culturale che si è progressivamente creata all’interno dei singoli Stati. Al tempo stesso ha costretto il diritto e gli ordinamenti nazionali a confrontarsi con la differente appartenenza di ognuno dei cittadini che vivevano stabilmente al suo interno ed a sperimentare una tendenziale diversificazione dello status e delle regole per ciascuno vigenti nel tentativo di rispettarne l’identità culturale.    

1.1 Una precisazione sulla portata del fenomeno: cosa si debba intendere per «cultura » nel contesto che viene a rilievo.   Quello di «cultura» è un concetto inaccettabilmente esteso, tanto che si è giunti a registrare più di cento definizioni tra loro diverse. Un criterio di delimitazione si impone anzitutto perché possa darsi rilevanza sul piano penalistico al fenomeno in esame (a proposito, sostanzialmente, della puntuale individuazione dei destinatari dell’inapplicabilità del precetto generale o della causa di diminuzione della pena quando non dell’esimente in senso proprio) e, conseguentemente, perché ne sia consentita la praticabilità in ambito processuale. In tal senso, si tende ad escludere dall’accezione qui rilevante quelle definizioni che identificano la cultura in una sorta di weltanschauung, vale a dire un “modo di vivere complessivo”, piuttosto che nei “valori astratti, i principi e le visioni del mondo che fanno da sfondo al comportamento delle persone”. Un’accezione di così estesa latitudine condurrebbe a ritenere che la «cultura» vari sostanzialmente da individuo a individuo, mentre è del tutto intuitivo che – nell’ambito in cui si indaga nel presente contesto – essa ac-2 quista rilevanza solamente quando si riferisce ad un gruppo in cui l’individuo è stabilmente insediato, essendo – tra l’altro – così radicata nel tempo da aver creato consuetudini di comportamento che sono riconosciute come valide e vengono unanimemente osservate all’interno dell’etnia. Vanno scartate, pertanto, tanto un’accezione “localizzata” a specifici gruppi portatori di valori omogenei (quali potrebbero essere gli omosessuali, le donne, gli atei, i comunisti, i portatori di handicap, gli animalisti, i “verdi” e via proseguendo), quanto altra decisamente più estesa che faccia riferimento, p. es., alle “democrazie occidentali” fondate sul riconoscimento di determinati valori comuni in grado di fondare la convivenza sociale (con riferimento ad indefettibili e ricorrenti caratteristiche quali la partecipazione ad una medesima civiltà industrializzata, il carattere di laicità degli ordinamenti statali, la diffusa urbanizzazione associata ad un notevole progresso economico e di organizzazione sociale e così via). L’una e l’altra sono infatti prive del fondamentale tratto della “etnicità” quale dato intrinsecamente unificante poiché se, nel settore che qui è in esame, deve tracciarsi qualche distinzione, ebbene essa dovrà necessariamente poggiare su quelle differenze che scaturiscono dalla etnia e dalla nazionalità. «Cultura» è quindi sinonimo di “nazione” o “popolo”, cioè una comunità intergenerazionale, più o meno compiuta dal punto di vista istituzionale, che occupa un determinato territorio e condivide una lingua e una storia distinte [2].
Conseguentemente, uno Stato potrà definirsi “multiculturale” rispettivamente se le persone che vivono nel territorio delimitato dalla sovranità appartengono a diverse nazioni (in tal caso si potrà parlare di “Stato multinazionale”) oppure anche se registra al proprio interno fenomeni di emigrazione da altre e diverse nazioni (nel quale caso si tratterà di uno “Stato polietnico”) [3]sempre e comunque all’indefettibile condizione che tale elemento assuma un rilievo significativo a livello di organizzazione sociale così da risolversi in un fattore importante dell’identità personale e della vita politica. E’ questa – del resto – l’accezione di “cultura” che le Corti penali americane hanno assunto quando si sono occupate di multiculturalismo e che è stata, in definitiva, univocamente accolta dalla letteratura per indagare e tracciare valutazioni sul fenomeno.    

 

1.2 La “diversificazione” tollerabile dall’ordinamento.   
La differente intensità del fenomeno migratorio e le diverse radici storiche dell’insediamento o della materiale presenza, all’interno dei singoli Stati, di gruppi portatori di una cultura eterogenea rispetto a quella che potrebbe definirsi “dominante” hanno condotto ad affrontare il fenomeno in maniera sensibilmente differenziata.Le modalità di approccio alla questione possono fondamentalmente ricondursi ad un triplice parametro. La prima di esse ha condotto alla progressiva affermazione di ordinamenti “penali” paralleli, vale a dire al riconoscimento dell’esistenza – accanto alle “normali” regole applicabili in ambito punitivo alla maggioranza dei consociati – di un diritto non solo sanzionatorio, ma al tempo stesso “riconciliativo” di tipo e natura sostanzialmente consuetudinari ricalcato sui radicati costumi propri di determinate etnie locali ed applicabile solo agli appartenenti a queste ultime. Le esemplificazioni che, al riguardo, si possono addurre concernono tuttavia solo Paesi esteri. In tal senso in Canada ed in altri Paesi anglosassoni, a partire dall’inizio degli anni ‘90 dello scorso secolo, é ammessa una sorta di giurisdizione che si attua nel cd. “cerchio magico” (sentencing circle) nell’ambito del quale vengono regolate – con la partecipazione, a fianco del giudice, di tutta la comunità locale e dei suoi capi temporali e spirituali – controversie anche di natura penale sorte all’interno delle comunità Inuit; esperienza che è stata ripresa, con alcune varianti, in Australia, Nuova Zelanda e Stati Uniti nei riguardi di gruppi autoctoni stabilmente insediatisi in quei territori e culturalmente omogenei al loro interno. L’art. 246 della Costituzione della Colombia (approvata nel 1991) riconosce giurisdizioni speciali indigene autorizzando gli stessi a regolare i loro rapporti in base al diritto consuetudinario loro proprio. Del tutto analogamente il Perù, con la Ley de Comunidades Campesinas del 1987, ha introdotto apposite procedure sanzionatorie anch’esse di carattere consuetudinario, attivabili esclusivamente nei confronti degli appartenenti alle numerose e differenti popolazioni aborigene giungendosi, a livello codicistico, a riconoscere una esplicita rilevanza esimente assegnata all’errore “culturalmente condizionato” [4].Scelte radicali, queste ultime, ragionevolmente indotte dalla convinzione da parte degli ordinamenti dei Paesi “ospitanti” che le consuetudini di tali gruppi etnici fossero ormai così consolidate in diritti ancestrali sedimentati nel tempo da indurre ad un riconoscimento e ad una protezione esplicita dei medesimi. Non è da escludersi che nell’opzione praticata (specie a cagione della peculiare sensibilità giuridica di matrice anglosassone), abbia avuto incidenza determinante il “senso di colpa” dei colonizzatori nei riguardi di culture deboli che essi hanno rinvenuto e, in qualche modo, soggiogato rendendole minoritarie nel territorio di loro conquista. Del resto, anche nelle comunità ROM – ovunque esse si siano insediate – vige la consuetudine di portare le controversie (anche penalmente rilevanti, oltre quelle di mera composizione di contese patrimoniali) innanzi a dei “saggi” cui si riconosce estrema autorevolezza all’interno dell’etnia: la soluzione da costoro offerta alle vicende loro sottoposte viene poi accettata da tutta le comunità proprio in stretta connessione con l’autorevolezza di chi l’ha composta. Va debitamente sottolineato come nelle prime esemplificazioni recate gli ordinamenti riconoscono esplicitamente il fenomeno e lo regolano a livello normativo mentre, nell’ultimo esempio addotto e relativamente almeno al nostro Paese, esso è semplicemente tollerato. Il secondo approccio consiste nella rinuncia ad applicare talune norme del diritto penale sostanziale agli individui appartenenti a determinati gruppi nativi. Così, ad esempio in molti Paesi anglosassoni – ma non solo – ai membri dei gruppi pellirosse, indios e aborigeni viene talora consentito, con apposite leggi, di cacciare specie animali altrimenti severamente protette, ovvero di partecipare a riti e più in generale di tenere comportamenti vietati a qualsivoglia altro soggetto [5].Sono casi nei quali le leggi finiscono per abbandonare la loro tradizionale “neutralità”, cosicché l’astratto egualitarismo del diritto lascia il posto all’ammissione di “trattamenti speciali” atti a consentire, in deroga alle regole generali, talune “eccezioni culturalmente fondate”. Il terzo fenomeno non è di matrice legislativa, ma giurisprudenziale e consiste nella sempre più evidente tendenza ad ammettere che, in caso di violazione di norme penali, la colpevolezza dei membri delle minoranze autoctone possa in talune ipotesi risultare scemata o addirittura del tutto esclusa. E’ la peculiare tematica delle cd. cultural defense (esimenti culturali) strettamente collegata con quella del tutto speculare delle cultural offences (cd. reati culturali) su cui si tornerà più estesamente tra breve.    

2 I differenti approcci alla disciplina del fenomeno immigratorio: i modelli praticati ed i rischi a ciascuno connessi.   

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