Il ruolo della filosofia nella formazione del giurista•
di Francesco Gentile

Sin dalla più elementare modalità, quella dei produttori o demiourgoí, la relazione intersoggettiva porta con sé e in sé il problema dell’attribuire il suo a ciascuno. Nello scambio dei prodotti, ma forse potremmo dire già nella loro produzione in una prospettiva non individualistica ma comunitaria, è presente quale criterio dello scambio la regola, che non sopraggiunge quindi, per un atto di volontà, ma è originaria. Il dilatarsi delle comunità per il moltiplicarsi dei bisogni e conseguentemente degli addetti alla produzione, l’elenco che ne fa Socrate è volutamente ironico: cacciatori, imitatori, musici, poeti, rapsodi, attori, ballerine, impresari, fabbricanti di belletti, pedagoghi, balie, nutrici, pettinatrici, barbieri, macellai, porcai, medici …ecc., spingendo a “oltrepassare i limiti del giusto” (Resp. 373 d), porta alla guerra e quindi ad un nuovo bisogno, quello della difesa, e, seguendo sempre il medesimo procedimento logico, ad una nuova relazione quella con i custodi, i phúlakes. La regola di questo nuovo scambio, asimmetrico perché instaurantesi tra prodotti materiali e disponibilità personale, va ricercata nel solo modo mediante il quale il custode “distingue una faccia amica da una nemica (..) ossia nel conoscere l’una e nel non conoscere l’altra” (Resp. 376 b). L’esame particolareggiato e puntiglioso del modo di allevare ed educare i phúlakes conduce Platone a scoprire “il modo con cui la giustizia e l’ingiustizia nascono” (Resp. 376 d – 412 e) nella relazione ossia “l’essere (o il non essere) in possesso del vero” che altro non è se non “il pensare ciò che veramente è” (Resp. 413 a) proprio di quanti sono autenticamente amanti del sapere ossia philósophoi. La formula scolastica per la quale si parla della comunità giusta come composta da produttori, custodi e filosofi è certamente semplicistica e fonte di equivoci ma contiene tuttavia un nucleo di veridicità se se ne intende il più riposto significato in riferimento alla relazione e alla regola che a questa è implicita. Per essere giusta, infatti, ovvero perché sia in grado di attribuire realmente a ciascuno il suo, una comunità deve avere produttori che sappiano produrre in modo di soddisfare i bisogni, né più né meno, la cui virtù è la sophrosúne ossia la temperanza, deve avere custodi che sappiano difendere la città dai nemici, esterni ed interni, la cui virtù è l’andreía ossia il coraggio, e deve avere filosofi che sappiano vedere ciò che è veramente, la cui virtù è la saggezza o prudenza che talvolta è indicata col termine sophía talaltra col termine phrónesis. Dikaiosúne è il nome che indica questa virtù della comunità per la quale “ciascuno attua ciò che gli è proprio, senza impicciarsi d’altro” (Resp. 433 b). Andrebbe tangenzialmente notato come questa sia l’interpretazione platonica del socratico “conosci te stesso” che troverà per Platone il suo più profondo contenuto nella conoscenza del fine ultimo, ragion d’essere del tutto, ossia il Bene.
Una più attenta considerazione della complessa struttura dell’essere in relazione mette in evidenza come il senso del dovere, che costituisce la condizione perché ciascuno dei membri della comunità occupi il suo posto e corrisponda convenientemente al suo ruolo sociale, armonicamente, in realtà abbia anche, e forse prima e soprattutto, una valenza personale per il singolo, per il suo equilibrio, per l’accordo, sumphonía, e il concento, armonía, dell’anima. L’attenzione si fissa così sulla temperanza, intesa come la via che più direttamente conduce alla giustizia. È “una specie d’ordinato equilibrio e di dominio sulle passioni e i piaceri, come dicono quando (..) si afferma che uno ‘è padrone di sé’ ed altre espressioni simili” (Resp. 430 e). Essere padrone di sé! C’è qualcosa di bizzarro in questa espressione poiché saremmo portati a dire che chi di sé è più forte anche di sé stesso è schiavo e chi di sé è schiavo anche di se stesso è padrone. In realtà la temperanza, che in un primo momento viene individuata come la virtù dei produttori e che poi si rivela come la virtù che deve essere condivisa da tutti i membri della comunità affinché ciascuno stia al suo posto e non invada l’altrui, scopre per così dire la struttura dell’anima e rivela come in essa “vi siano due aspetti, uno migliore e uno peggiore. E quando la parte per natura migliore ha il dominio sulla peggiore, ecco l’espressione: ‘essere padrone di sé’, e suona lode; quando, invece, per colpa di una cattiva educazione o di non buona compagnia, la parte migliore, ma più debole, è vinta dalla cattiva, più forte, allora chi si trova in questa situazione è detto ‘schiavo di se stesso’ e intemperante: e suona biasimo e rimprovero” (Resp. 431 a-b). La relazione non è quindi solo una modalità dell’essere esteriore del soggetto, nei suoi rapporti con gli altri, ma anche e prima di tutto dell’essere interiore della sua anima, nel rapporto con se stesso.
L’approfondimento di questo conduce il filosofo prima ad individuare “due principi distinti l’uno dall’altro: l’uno, quello mediante il quale l’anima ragiona, che potremo chiamare l’aspetto razionale (logistikón), l’altro, quello mediante il quale l’anima ama, ha fame e sete e diviene preda di tutte le passioni, quello che potremo chiamare l’aspetto irrazionale e concupiscente (epithumetikón), che vive in compagnia di ciò che dà soddisfazione e dei piaceri” (Resp. 439 d) . E quindi di un terzo.
“quell’aspetto impulsivo (thumós), l’aspetto per cui ci adiriamo” (Resp 439 e), che parrebbe doversi associare al concupiscente ma che invece, alleato del razionale, è chiamato a fronteggiarne la prepotenza affinché con la voglia insaziabile di piacere, di ricchezza e di successo non venga sconvolto l’ordine dell’anima personale e, di riflesso, della comunità intera. Giustizia in questa prospettiva è dunque che ciascuna delle parti dell’anima attui la sua propria funzione e in tal senso, compia il proprio dovere, in modo tale che “i movimenti di tutte e tre siano proporzionati gli uni agli altri” (Timeo 89 e).
Scavando poi ulteriormente nell’anima dell’uomo, il filosofo supera lo schematismo che poteva irrigidire l’essere padrone di sé tra una parte che è migliore, nel senso che deve star sopra, e di una peggiore, che deve star sotto, e nel Politico, con straordinaria lucidità utilizzando il paradigma della tessitura, propone una rappresentazione dell’anima come intessuta di andreía e di sophrosúne ma anche, sapendo di sorprendere con un’affermazione sconcertante, mette in luce come quelle “due parti della virtù (..) possano trovarsi “in grave contrasto fra di loro e quasi opposte l’una all’altra” (Polit. 306 b). Non c’è dubbio che quando di un uomo diciamo che è vivo ed energico, pronto ed energico o impetuoso e così via esprimiamo un elogio ma un elogio esprimiamo anche quando di un uomo diciamo che è pacifico e saggio, quando è mansueto e dolce nel rivolgersi agli altri, con voce piana e grave.”Eppure. se queste opposte qualità si manifestano fuori luogo, cambiamo parere, e per biasimarle le indichiamo con nomi che significano il contrario (..) se ciò di cui parliamo si rivela più acuto, più rapido, più duro del necessario, lo chiamiamo violento (ubristikós) e rabbioso (manikós); se più grave, più lento, più sdolcinato, lo diciamo pusillanime (deilós) e infingardo (blakikós). Giustizia, così guardando le cose, si rivela essere misura, “giusto mezzo (tò métrion), essere conveniente, opportuno, doveroso, in una parola, per sua sede naturale il mezzo (tò méson) degli estremi” (Polit. 284 e).
Proprietà, proporzione, giusta misura, che sono fattori dell’ordinamento soggettivo, della sumphonía , della armonía, della omónoia dell’anima personale, per un riassunto dei quali non sapremmo trovare espressione più conveniente che quella di “autonomia”113, si rivelano così come il germe dello stesso ordinamento giuridico delle relazioni intersoggettive, della sumphonía, della armonía, della omónoia della comunità114. Non è per un preconcetto mitologico né per un’opzione ideologica che Cicerone poteva affermare che “la disciplina giuridica non si ricava dagli editti del potere, come anche oggi molti ritengono, e neppure dalle Dodici Tavole, come ritenevano gli antichi, ma dai supremi principi della filosofia” (De leg. I, 16-17). Per questa via, calandosi filosoficamente nel profondo dell’essere umano, all’operatore giuridico di ogni tempo è dato di difendersi dalla tentazione di ridursi ad “enzima” del potere e di accedere a quella che la tradizione giuridica, civile e canonica, ha definito come Prudentia iuris. Se amassimo inventare broccardi, saremmo tentati da uno del tipo: Veritate non auctoritate dicitur ius.
“L’ufficio del diritto o del giurista – infatti, come nota suggestivamente Michel Villey risalendo alle origini romane del diritto attraverso l’esperienza filosofica delle quaestiones tomistiche115– deve essere concepito essenzialmente come un lavoro di conoscenza: conoscenza del giusto nelle cose. La giusta proporzione dei benefici e dei carichi in un gruppo sociale (mediante cui si determina la parte che spetta a ciascun litigante) è cosa che è, che il giurista per la sua funzione specifica dovrà accertare e dire all’indicativo”116. Un’affermazione che oggi diremmo controcorrente ma in cui riecheggia il monito ciceroniano di non pensare il diritto come “costituito sulla base dei decreti del popolo, degli editti dei principi, delle sentenze dei giudici, poiché se così fosse potrebbe essere un diritto rubare, commettere adulterio, falsificare testamenti, ove tali azioni venissero approvate dal voto e dal decreto della folla” (De Leg. I, 15-16), bensì “derivato dalla natura delle cose 117, stimolo ad agire onestamente e a tenersi lontano dal mal fare” (De Leg. II, 8-10). Ci si trova così di fronte al nodo problematico radicale dell’esperienza giuridica, posto dal rapporto tra intelligenza e volontà, tra concetto e precetto, tra indicativo e imperativo, tutti necessari e tra di loro connessi in termini di reciprocità, poiché non si può dare a ciascuno il suo senza sapere quale sia il suo di ciascuno, né evitare di offendere gli altri se non si sa che cosa li offenda o vivere onestamente senza sapere che cosa sia onesto ma, nel medesimo tempo, non basta sapere che cosa è onesto per vivere onestamente, né avvertire ciò che offende gli altri per non offenderli o avere nozione di ciò che è suo di ciascuno per attribuirglielo. Per l’ordinamento delle relazioni tra i membri di una comunità l’imperativo non può crescere se non nel terreno nutrito dall’indicativo. Per ristabilire la relazione tra i litiganti l’imperativo non può che uscire da un indicativo. Ma come? Non per deduzione logica né per induzione ideologica. Il genio dei giuristi romani ha rivelato all’umanità la via dialettica118 della Iuris prudentia, quale autentica fonte da cui il diritto fluere coepit119. Su questo nodo problematico radicale un florilegio di citazioni dal Digesto e più in generale dalle massime che i giuristi romani ci hanno tramandato potrebbe essere raccolto. Per sottolineare il radicamento del giuridico nella natura delle cose: del diritto naturale com’è evidente (Ulpiano, D.1,1,4) ma anche del diritto delle genti, stabilito tra gli uomini dalla ragione naturale (Gaio, D.1,1,9) e dello stesso diritto civile che, pur caratterizzandosi per essere proprio di una particolare comunità, non si discosta in tutto dal diritto naturale (Ulpiano, D.1,1,6). Per rimarcare con forza la centralità della ragione e dell’onestà nell’ordinamento delle relazioni intersoggettive per cui, laddove sia stato stabilito alcunché contra rationem, neppure la norma giuridica può essere seguita (Giuliano, D.1,3,15) poiché “non omne quod licet honestum est” (Paolo, D. 50,17,144) e perché nessuno può arricchirsi a scapito e in pregiudizio di altri (Pomponio, D.50,17,206, cfr. altresì D. 12,6,14 e D. 23,3,6,2). Per affermare come anche il diritto legale debba essere “secundum natura, quae norma legis est” (Cicerone, De leg. 1,5,17). Ma è soprattutto per evidenziare un aspetto, diciamo così, metodologico che, a proposito della “origine prudenziale” del diritto, il riferimento alla giurisprudenza romana è di cardinale importanza, anche nella temperie attuale della crisi del formalismo giuridico.

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