‘Platone o il legislatore persuasivo’
di Giacomo Gavazzi

Alla luce dell’ipotesi secondo la quale quella di Platone è una concezione del controllo sociale esercitato dai filosofi in nome della filosofia, si può forse correttamente interpretare la sconcertante apparizione nell’ultimo pensiero politico di Platone del legislatore che viene a prendere il posto del re filosofo e dell’uomo regio. La vocazione “persuasiva” del legislatore delle Leggi lungi da costituire un elemento di contraddizione tra la concezione politica delineata nelle Repubblica e quella delineata nelle Leggi è il segno a mio avviso della continuità del motivo fondamentale dei due dialoghi. Ma come nasce e cresce nel pensiero platonico la figura del legislatore?

Nella Callipoli della Repubblica governano40 i re filosofi senza bisogno di leggi scritte; il legislatore non vi ha alcuna funzione da svolgere proprio perché i re sono filoosofi o i filosofi sono re41 e in ogni caso, in quanto filosofi, hanno la conoscenza diretta delle Idee, che è poi la conoscenza del Bene. Nella Repubblica non v’è legislatore e non v’è neppure una critica alla legislazione: non ce n’era bisogno, la sua assenza era scontata in partenza. Come verrà detto nel Politico “se vi sarà un giorno qualcuno capace di tanto (cioè di “prescrivere a ciascun individuo a puntino ciò che deve seguire” “sedendosi accanto per tutta la vita”) e fra quelli che davvero posseggono la scienza regia, sarebbe difficile che ponesse a se stesso ostacoli con lo scrivere queste cosiddette leggi”42.

Nel Politico l’ideale dell’uomo regio, che è sempre il re filosofo, rimane intatto: “la cosa migliore è che non le leggi abbiano valore, ma piuttosto l’uomo che si intende veramente di governo, che vive secondo lo spirito, l’uomo regio”43. E tale rimane anche nelle Leggi: “Se per divina sorte un giorno nascerà un uomo per sua natura capace di comprendere tali verità, egli non avrà bisogno di leggi che lo governino. Nessuna legge, nessun ordinamento, infatti, è supoeriore alla scienza, né giustizia è che l’intelligenza sia schiava o soggetta ad alcuno, ma che di tutto abbia il governo quando, secondo la sua natura, sia veramente libera”44.

Il contesto però non è più lo stesso. La diffidenza verso il legislatore (o, come è stata chiamata, l’omissione del legislatore) che nella Repubblica era un dato acquisito senza discussione, nel Politico è invece argomentata e giustificata da un’analisi45 così stringata e così pertinente da far invidia ai giusliberisti di 25 secoli dopo. Ma v’è di più: tessuto il panegirico dell’arte regia, criticata a fondo la legislazione in quanto incapace, sostituendosi all’arte regia, di raggiungere i medesimi risultati, sempre nel Politico, v’è lo sforzo di giustificare le legislazioni in qualche misura e a certe condizioni46. Si tratta di una giustificazione sommessa, giacché per tutto il dialogo circola l’idea dell’uomo regio, il quale deve farsi legislatore e la legislazione appare quindi come un sottoprodotto dell’arte regia47. Nelle Leggi poi la riabilitazione è pressoché completa. Non è certo in discussione la superiorità della scienza e dell’intelligenza “che di tutto deve avere il governo, quando, secondo la sua natura, sia veramente libera. Solo che oggi non è affatto tale, se non in minima parte. Noi quindi dobbiamo scegliere una seconda via, la via cioè dell’ordine e della legge”48.

È chiaramente sopravvenuto, o forse maturato, il pessimismo sulla possibilità di trovare in terra l’uomo veramente regio49. Ma il solo pessimismo non spiegherebbe quello che è un vero e proprio elogio del governo delle leggi celebrato nel seguente passo: “Se qui ho chiamato servitori delle leggi quelli che oggi si dicono governanti, non l’ho certo fatto per puro gusto di nuove parole, ma perché sono convinto che soprattutto da questo dipenda la salvezza o la rovina dello Stato. Là dove infatti la legge è asservita e senza autorità, in quello Stato io vedo prossima la rovina; là dove invece essa regna sovrana sui governanti, e dove i governanti sono della legge servitori, là vedo fiorir la salvezza e tutti quei beni che gli dei concedono agli Stati”50.

Continuità o rottura nello svolgimento del pensiero politico di Platone?51.

A mio parere la continuità è indubbia se ci si affida al filo conduttore del controllo sociale. Ciò vale sia sotto il profilo del fine del controllo sociale52: virtù e ordine della polis, che è un fine costante nella Repubblica, nel Politico e nelle Leggi; sia sotto il profilo dei titolari del potere di controllo sociale: Re filosofo nella Repubblica, Uomo regio nel Politico, Legislatore nelle Leggi: si tratta sempre di colui che sa53 (“un dio o un privato che ne abbia conoscenza”); sia infine sotto il profilo dei mezzi del controllo sociale. È vero che nella Repubblica le leggi sono assenti ma è anche vero che le leggi (comando coercitivo) sono solo una piccola parte del controllo e neppure nelle Leggi ne costituiscono la parte principale54.

Il controllo giuridico in senso stretto – quello rappresentato dalle nude leggi – entra in azione quando e su chi non abbia avuto presa quella forma di controllo rappresentata dai preludi.

Il preludio costituisce concettualmente un controllo intermedio fra quello giuridico, che non c’è nella Repubblica e che c’è nelle Leggi, e quello educativo che c’è e nella Repubblica e nelle Leggi55. In quanto connesso materialmente col contenuto (comando) della legge si avvicina al controllo giuridico, in quanto funzionalmente diretto alla persuasione si avvicina al controllo educativo.

Le Repubblica – si dice e si ripete – è una polis ideale in cui ognuno, formato dalla retta educazione, sta al suo posto e contribuisce all’armonia del tutto. Ecco perché nelle Repubblica l’educazione dei giovani ha il compito di risolvere in anticipo tutti i problemi. Nelle Repubblica i cittadini sono completamente e perfettamente socializzati e se il controllo giuridico non c’è, è perché esso è reso superfluo.

Le Leggi rappresentano il problema di una polis da costruire storicamente ed in essa la completa socializzazione dei cittadini adulti non è assicurata come nella Repubblica56.

Si pone, al contrario, il problema della devianza. E poiché la devianza può avere una duplice origine, ignoranza o difetto di istruzione da un lato, incapacità costituzionale di alcuni cittadini ad apprendere il bene dall’altro, è logico che la terapia sia anche essa duplice: educativa per chi ancora può essere istruito; coercitiva per gli incurabili: preludio alla legge per i primi e testo di legge per i secondi.

Se tutto ciò è vero, diventa più facile risolvere l’annoso problema circa la natura57 razionale o emotivo-manipolativa della persuasione platonica. Si può tranquillamente escludere che il preludio trasmetta direttamente conoscenze filosofiche58, cosa che presupporrebbe la comunicabilità del sapere filosofico e la apprendibilità potenziale di esso da parte di tutti. Due condizioni entrambe negate da Platone. Il legislatore sa ma non può far sapere tutto a tutti; è vero che egli deve costantemente che cosa si propone, qual è il suo scopo59 ma questa forma di autocontrollo del legislatore deve rimanere interna al legislatore stesso: i preludi non sono né un’esposizione della filosofia, impossibile e inaudibile, né una enunciazione di mete che da quella discendono. Se ciò che il filosofo può comunicare sono contenuti soltanto corrispondenti al sapere filosofico, mito e menzogna sono giustificati nella misura in cui il loro contenuto corrisponde a ciò che il legislatore-filosofo sa essere vero.

“La legge istruisca chi commette ingiustizie …Tale dunque sia il compito delle leggi più belle, si ricorra per questo all’azione o ai disonori, alle multe o alle ricompense, o a qualsivoglia mezzo pur di far odiare l’ingiustizia ed amare, o almeno non detestare, la giustizia nella sua essenza”.

Con questa citazione dalle Leggi (Leg., 862 d) Giacomo Gavazzi conclude quello che avrebbe dovuto essere il primo capitolo di uno studio che, nelle sue intenzioni e secondo un suo specifico interesse, avrebbe dovuto riempire un vuoto o meglio correggere l’insensibilità dimostrata dai moderni teorici del diritto per un problema a suo avviso cardinale per l’ordinamento giuridico delle relazioni intersoggettive. “Il legislatore è sì l’autorità suprema, ma o perché deriva dal contratto sociale o perché esprime la volontà generale o perché in qualche modo è un legislatore democratico, non ha bisogno di dar conto puntualmente e di volta in volta delle ragioni delle sue scelte … Una così generale insensibilità – è il suo commento – se non stupisce eccessivamente nei politici e negli ideologi dediti alla costruzione del grande Leviatano moderno, lo stato legislatore, lascia dubbiosi e incerti quando sia dato vederla altrettanto diffusa presso i filosofi” [iii]. E per essere più convincente Gavazzi cita Radbruch, dalla Introduzione alla scienza del diritto[iv]: “Chi si mette a convincere circa la conformità allo scopo dei suoi comandi, rinuncia all’obbedienza, se chi riceve il comando non si lascia persuadere. Egli abbassa il comando che per la sua essenza è vincolativo, ad un consiglio efficace solo secondo la misura della sua forza di persuasione … Un legislatore moderno per ciò non si mette mai in bocca la parola ‘poiché’. Non persuadere, ma comandare dev’essere proprio del suo ufficio, se il destinatario dev’essere tenuto non a ragionare ma ad ubbidire al comando”. Sembrerebbe quasi un elogio all’ubbidienza irragionevole, cosa che non poteva andare a genio a Giacomo Gavazzi.

Come il lettore si sarà reso conto di persona, tutto lo studio è invece mosso e sorretto dalla meraviglia per la fiducia nel ragionamento quale, “entro i limiti delle umane possibiltà”, si esplica anche laddove un “legislatore è costretto a formulare le leggi di cui pur desidererebbe non ci fosse bisogno”. In realtà l’amore del sapere (f???s?f?a) nell’esperienza di Giacomo Gavazzi ha dovuto convivere e combattere con lo scientismo, per un verso, e, per un altro, con la gnosi. Come, per un verso, anche in questo saggio risulta dalla strana (strana per un acuto e lucido analista dei concetti qual era Gavazzi) collocazione sotto la stessa categoria, quella del “controllo sociale”, di interventi artificiali quali la farmacologia, la costrizione e la stessa suggestione, intese a realizzare una “soggezione”, e di interventi secondo natura quali l’educazione, la psicagogia e la stessa persuasione, intese a realizzare in qualche modo una “comunione”. Così come, per altro verso, risulta anche in questo saggio dallo strano (strano per un raffinato scrittore qual era Gavazzi) uso del verbo intransitivo filosofare quando a proposito della massa scrive “che non filosofa e che non si lascia filosofare” da parte di coloro che sanno: il Re filosofo, l’Uomo regio, il Legislatore. Facendo peraltro intravvedere, ed è qui l’aspetto per me più affascinante della personalità di Giacomo Gavazzi, un modo di rapportarsi al sapere che non è quello del conquistare ma dell’esserne conquistati. D’altronde, se è veramente “amore” del sapere che cosa sarebbe se non autentica disponibilità a” lasciarsi amare” dal sapere?

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