Pasquale Stanislao Mancini
di Francesco Gentile

In merito all’evoluzione scientifica, secondo Mancini, nell’ultimo secolo il progresso si è manifestato innanzitutto con l’assunzione ad "oggetto di studio e d’insegnamento" de "le nuove leggi, gli Statuti, le consuetudini, gli Editti", oltre la stanca ripetizione dei canoni del Diritto romano e del Diritto canonico. E, specificamente, con l’istituzione nelle facoltà giuridiche dell’insegnamento di Diritto pubblico interno, ecclesiastico ed amministrativo, di Scienza dell’amministrazione, di Diritto criminale, di Diritto giudiziario, di Diritto internazionale, pubblico e marittimo, d’Economia politica e di Filosofia del diritto salutata, come già abbiamo visto, "madre di tutte le altre discipline giuridiche".
Invero, proprio in quegli anni, un po’ ovunque nelle Università italiane, ed europee in genere, la filosofia del diritto cominciava a trovare il suo posto, non solo "come un lusso accademico estraneo ad un quadro regolare di studi" e di studi giuridici in particolare. Faticosamente. E d’altronde persino il nome di Filosofia del diritto riusciva "abbastanza nuovo", come commenta il Baroli, "sotto il quale non tutti gli scrittori intendono accuratamente la stessa cosa".
Questo accadeva per le vie più diverse. A partire, per esempio, dalla Filosofia teoretica e pratica, com’è il caso di Pietro Bardi, cremonese, chiamato a ricoprire l’incarico di Filosofia del diritto nell’Università di Pavia nel 1837 e autore di un trattato di Diritto naturale privato e pubblico nel quale, con ampia e critica valutazione della dottrina straniera in argomento, diffuso soprattutto il riferimento allo sviluppo avuto dal kantismo nel segno di una "scuola del diritto razionale", viene indicato il ruolo specifico della Filosofia del diritto, tra il Diritto naturale, comprendente i principi fondamentali che governano l’anima umana "circa la pratica attività degli esseri ragionevoli" e il Diritto positivo quale "complesso delle leggi giuridiche positive che derivano il loro valore e forza obbligatoria (…) da un’autorità esterna". Ma anche a partire da materie più propriamente giuridiche, com’è il caso di Alessandro Nova, dal 1863 titolare della cattedra di Filosofia del diritto, sempre a Pavia ma nella Facoltà Legale, essendone stato professore, dal 1854, di Diritto e processo penale, filosofico e positivo, il quale intendeva la disciplina come "critica dei testi allora obbligatori dello Zeller, Diritto privato naturale, e del Martini, Positiones civitatis". O, com’è il caso di Del Rosso che, a Pisa nel 1843, passa dalla cattedra di Pandette a quella di Filosofia del diritto. Ma i casi si potrebbero moltiplicare: per il "folclore", va ricordato quello di Bertrando Spaventa, nominato professore di Filosofia del diritto nella Facoltà legale di Modena nel 1859 con decreto del Dittatore Luigi Farini.
Per individuare teoreticamente i termini della questione potremmo seguire la vicenda di un libro a quei tempi, e non solo a quelli, celebre: il Cours de droit naturel ou de philosophie du droit "complété, dans les principales matières, par des aperçus historiques et politiques" di Henri Ahrens, "ancien professeur de philosophie et de droit naturel aux Universités de Bruxelles et de Gratz, professeur de philosophie et des sciences politiques à l’Université de Leipzig, Chevalier, etc.", che citiamo, volutamente, dall’ottava edizione del 1892, apparsa in Lipsia da Brockhaus dopo la morte dell’autore (1874), testualmente, "sur la sixième édition entièrement réfondue et complété par la théorie du droit public et du droit des gens". Rifusione e completamento, postumi, che non possono dirsi scorretti perché già Ahrens aveva costruito la sua opera per successive rielaborazioni e integrazioni. La prima edizione del Cours è licenziata a Bruxelles nel dicembre del 1837. Nel 1841 viene tradotto in italiano a cura del professor Francesco Trinchera, e su questo torneremo tra breve. Nel 1843 appare la seconda edizione a Bruxelles. Nel 1846 esce a Vienna l’edizione tedesca originale, Heinrich Ahrens infatti era tedesco di nascita e di studi scolaro di Kraus a Gottinga, con un titolo integrato: Naturrecht oder Philosophie des Rechts und des States auf dem Grunde des Ethischen Zusammenhanges von Recht und Cultur. Nel 1848 la terza edizione a Bruxelles. Nel 1850 Ahrens accetta la cattedra di Filosofia del diritto offertagli dal Governo Austriaco nell’Università di Gratz, ed esce a Vienna un libro dal titolo: Die organische Staatslehre auf philosophisch-naturalistischer Grundlage che diverrà poi nel 1858 Die organische Staatslehre auf philosophisch-antropologischer Grundlage. Nel 1853 la quarta edizione francese. Nel 1855, sempre a Vienna, esce a complemento del Cours la Juristische Enzyklopädie. Nel 1860, a Gratz, esce la quinta edizione e finalmente, a Lipsia nel 1868, la sesta che viene presentata come quella che, "rispondendo ai voti espressi da ogni parte (con giusta soddisfazione, in nota, Ahrens fa il calcolo che, contando le originali in francese, quattro traduzioni in Italia, tre in Spagna, una in Germania da non confondersi con l’originale di Vienna, una in Portogallo, una in Brasile, una in Ungheria, una negli USA, le edizioni del suo lavoro sarebbero ormai ventidue) compie finalmente l’esposizione di diritto privato, con la teoria del diritto pubblico, con alcuni cenni sul diritto delle genti e presenta il sistema del diritto nel concatenamento di tutte le sue parti".
La vicenda di questo libro permette di evidenziare il ginepraio in cui si trova la Filosofia del diritto nel momento in cui cerca di prender posto, non tanto amministrativamente quanto scientificamente, nell’ambito degli studi giuridici, facendosi largo ma anche misurandosi e quindi stabilendo comunità e differenze con il Diritto naturale e con l’Enciclopedia del diritto, tra naturalistischer ed antropologischer Grundlagen, ma anche in rapporto all’Etica, auf dem Grunde des Ethischen Zusammenhanges. Il tutto però in un a prospettiva unitaria, definita dalla funzione "educativa" della nuova disciplina. Ahrens, presentando quella che sarà l’ultima edizione del suo Cours, lui vivente, scrive: "La grave situazione politica (siamo nel luglio del 1868) in cui stanno quasi tutti i paesi civili, la perturbazione di tutte le idee morali, che tanto chiaramente si manifesta nelle deplorevoli tendenze più o meno materialistiche (…) mi hanno spinto a determinare ancor meglio il principio del diritto nel suo carattere razionale e presentarlo nei suoi rapporti intimi con tutto l’ordine morale, ed a mostrare, mediante cenni storici, che tutto l’ordine del diritto, come anche tutte le istituzioni e forme dello Stato, sono un riflesso di tutte le forze e di tutte le tendenze che agiscono nell’ordine intellettuale della società, e che le condizioni essenziali alla libertà privata e pubblica non si trovano che in un’azione potente delle idee e delle convinzioni morali nel seno di una società". E aggiunge: "La prima condizione necessaria per rialzare le forze spirituali e morali nel seno di una nazione è il riunire nell’istruzione superiore lo studio delle scienze razionali, della filosofia in generale e nella sua applicazione alle scienze pratiche; per formare un contrappeso necessario alle scienze positive, e per fare che la mente non perda, nella moltitudine di conoscenze che da ogni parte si accumulano e ch’essa deve appropriarsi, la coscienza di se medesima, della sua intima natura, delle sue facoltà spirituali, e dei grandi principi dell’ordine morale che debbono servirle di guida nella vita e nella scienza pratica". Ogni commento è superfluo.
Nel 1942, tracciando un profilo della Filosofia del diritto in Italia nella seconda metà dell’Ottocento, Norberto Bobbio stigmatizza in termini pesantemente negativi il fatto. "In quel periodo – scrive – la filosofia del diritto (…) fu una disciplina esclusivamente scolastica, cioè sorta dalla scuola, rivolta ai fini dell’educazione, inserita così intimamente nelle vicende della storia delle nostre università che il suo orientamento fu talvolta determinato, o almeno influenzato, da minacce varie che le incombevano di soppressione o di trasformazione". Tra parentesi va ricordato che nel 1875 il ministro Bonghi prenderà il provvedimento di abolizione della Filosofia del diritto come materia obbligatoria in favore della Introduzione alle scienze giuridiche o dell’Enciclopedia del diritto da un lato e della Sociologia dall’altro. Il ministro Coppino abrogherà il provvedimento nell’anno successivo. Senza maggior fortuna, l’abrogazione della disciplina verrà riproposta in seguito dal Boselli nel 1890 e dal Nasi nel 1892. "La letteratura filosofico-giuridica – insiste, calcando la mano, Bobbio – è per gran parte di natura manualistica: dunque una filosofia per la scuola con tutti i difetti che ad una filosofia scolastica sono inerenti, completezza che va a scapito della genuinità, sistematicità che soffoca la spontaneità, genericità che sa di formula e di imparaticcio; filosofia, come si legge qua e là nei sottotitoli, ad uso dei giovani, il che vuol dire, senza che magari si voglia confessarlo, filosofia attenuata o timorata o saggia o prudente o civile; filosofia, (…) in una parola che mi pare colga non soltanto il tono ma anche la sostanza, didascalica". Per capire la durezza della critica di Bobbio, e insieme la sua sbrigatività, relativamente agli autori cui essa è rivolta, bisognerebbe ricordare che in realtà il saggio aveva soprattutto di mira una comunicazione del Filomusi-Guelfi al Congresso internazionale di filosofia del 1911 a Bologna: "un catalogo di nomi, tanto più arido quanto sconosciuta la maggior parte degli autori ricordati (…). Brevissimi cenni estrinseci sulla vita o sull’opera; l’etichetta filosofica: giobertiano, idealista, hegeliano; e qualche complimento da collega a collega". E, "per la classificazione, anche il Filomusi-Guelfi ricorreva alla solita distinzione: indirizzo idealista da un lato e indirizzo materialista dall’altro ..".

Pages 1 2 3 4 5