ORDINE ED ESPERIENZA
LA TRADIZIONE GIURIDICA ORIENTALE: ISLAM, INDIA, CINA
di Rossella Bassanese

4. IL DIRITTO CINESE

Per molti secoli, la storia del diritto cinese è stata segnata dal contrasto tra due opposte scuole di pensiero. Da un lato quella legista, che nella legge scritta (fa), e in particolare nella legge penale, vedeva il più efficiente tra gli strumenti di governo; dall’altro quella confuciana, storicamente prevalente, che invece manifestò costantemente la propria ostilità nei confronti delle leggi e dei tribunali e la propria sfiducia nella capacità di queste istituzioni di disciplinare armoniosamente i rapporti sociali, affermando all’opposto la necessità di fondare l’ordine della società sull’educazione e sul rito (li).
La visione cinese tradizionale del diritto è molto diversa da quella occidentale , variamente influenzata o derivata dal diritto romano.
La regolazione della vita sociale è fondata sulla combinazione di due insiemi distinti di norme: il li e il fa. Il li è un complesso di regole morali, che si concretizzano in precisi rituali, alle quali si affiancano regole di educazione e di cortesia, il cui rispetto garantisce all’uomo una vita in armonia con il cosmo. Una sorta di diritto naturale a maglie larghe, che in realtà si presentava come il codice di comportamento di un gruppo sociale, giacché limitava la sua efficacia agli strati più elevati della popolazione, i soli in grado di ispirare la propria condotta al rispetto dell’ordine della natura.

4.1 Il li.

Il fondamento del li è il pensiero confuciano (ma sostenitori ne furono anche i taoisti ), per il quale è compito dell’uomo cercare l’armonia fra il suo operare e le leggi che governano il mondo naturale. Le virtù da coltivare, spontaneamente, senza l’intervento di alcuna costrizione, per il raggiungimento di questo obiettivo sono il senso di umanità, ren, e la rettitudine, yi.
Ren è in realtà un concetto intraducibile: è la virtù per eccellenza alla quale si riconducono tutte le altre (pietà filiale, spirito di reciprocità, lealtà, sincerità, ecc.) e sta ad indicare la giustezza dei rapporti che due uomini dabbene intrattengono fra loro sulla base di ciò che sono l’uno per l’altro. I riti definiti dal li, dunque, guidano la condotta nei riguardi del proprio padre e degli altri membri della famiglia, in primo luogo, poi delle autorità, dei superiori e degli amici. In questo codice di comportamento non trovano spazio i diritti: l’individuo è connotato dai propri doveri, verso la famiglia e verso la collettività. La definizione dei rapporti interpersonali non contempla il concetto di uguaglianza: il rapporto fra due individui è sempre di carattere gerarchico. Poiché la virtù è la capacità di distinguere la specificità di ciascuna relazione nella sua singolarità, in funzione della distanza o della prossimità di parentela, di generazione, di età, di sesso, di stato sociale, di rango all’interno dello Stato, nelle cinque relazioni fondamentali (wu lun) , figlio-padre, moglie-marito, suddito-sovrano, giovane-vecchio, amico-amico, vige sempre un criterio di subordinazione, quanto meno sulla base dell’età. "Trattare il principe da principe, il sottoposto da sottoposto, il padre da padre, il figlio da figlio" è il principio morale confuciano che mostra tutta la sua distanza dalla nozione cristiana del valore assoluto della "persona umana", svincolato dalle disuguaglianze legate alla struttura della società. La morale confuciana non ha, infatti, una connotazione teologica, come quella cristiana, ma piuttosto politica ed è per questo che il li, che ad essa si rifà, non va interpretato come un teorico codice morale, ma piuttosto come un efficace strumento di regolazione sociale e di governo. D’altro canto la riflessione teologica è in Cina quasi completamente assente, giacché la liturgia è espletata all’interno della famiglia e manca una casta sacerdotale. Questa stessa circostanza impone lo sviluppo di un accentuato formalismo, che assicuri al celebrante, non "professionale", il rispetto di quanto richiesto dal rito. La guida alla definizione delle forme rituali è la divinazione, che non mette, comunque, in questione la finalità delle forme che definisce, non dice, cioè, nulla sulle esigenze, la volontà, i disegni della divinità. Quello che prevale è l’aspetto morfo-logico, che pone attenzione alle correlazioni formali, alle corrispondenze strutturali, ai rapporti di omotetia, rispetto a quello teleo-logico, che indaga la concatenazione di causa ed effetto, di mezzi e fini.
La provenienza divinatoria dà al rito la sua forza e la sua densità poiché ne determina la corrispondenza all’intimo delle cose: conformarsi al rito significa conformarsi all’ordine del mondo. I riti sono il calco visibile dei movimenti misteriosi dell’universo. Hanno, dunque, una loro ragione profonda, sottolineata dall’omofonia fra li rito e li ragione. Il formalismo non si colloca, perciò, nella dimensione dell’esteriorità superficiale: le forme di cui prescrive il rispetto sono quelle del senso nascosto delle cose .

4.2 Il fa.

L’altra componente dell’orizzonte giuridico, il fa, è, invece, la legge in quanto fonte del diritto.
La Scuola delle leggi, che sosteneva la visione fa del diritto, ha un’origine (fra il 708 e il 643 a.C.) che precede l’epoca di Kong Qiu (o Kong Fuzi, Confucio, il "Signor Kong", 551-479 a.C.). Il suo principio di base, opposto a quello confuciano, è la certezza della fondamentale malvagità, del fondamentale egoismo della natura umana, che va controllata, in modo da reprimere gli ineliminabili conflitti, attraverso leggi scritte e punizioni delle violazioni, severe fino alla crudeltà perché esercitino un’azione deterrente. Vi è, tuttavia, anche nel fa, l’ambizione a produrre, attraverso l’azione legislativa e repressiva, una progressiva interiorizzazione della norma, che col tempo renda inutile la legge stessa e, a maggior ragione, la punizione. Lo Stato ideale, dunque, tanto per la Scuola delle leggi, quanto per i seguaci di Confucio, è quello che non ha bisogno della legge.
La dialettica fra prevalenza dell’una o dell’altra impostazione, legata alle vicende delle dinastie imperiali e alla solidità del potere centrale, incline ad enfatizzare il ruolo della legge scritta, approda ad una conciliazione resa possibile dalla forte strutturazione in classi della società cinese.
In un testo del XIII secolo il rapporto tra li e fa è proposto come una gradazione, che privilegia l’applicazione del li, ma prevede il ricorso alla legge ove i riti non siano sufficienti, per passare poi alla sanzione (xing) se la legge non viene rispettata.
Il terreno del compromesso è la delimitazione del campo sociale di applicazione delle due forme di regolazione: "Il li non discende fino alla gente comune e il fa non sale fino ai nobili letterati" è l’aforisma con il quale già i primi confuciani riconoscono la necessità di leggi penali (tali sono sostanzialmente quelle che costituiscono il fa) per fungere da deterrente ai cattivi comportamenti di quanti non sono stati educati secondo i dettami del confucianesimo: contadini, artigiani, commercianti.
I codici che si succedono nel tempo, pertanto, vedono le disposizioni contenute nel li sanzionate in forza delle leggi penali del fa. Restano un certo numero di categorie immuni dalle pene, costituite da persone variamente legate all’imperatore, ma anche da benemeriti dello Stato, saggi che svolgono il ruolo di educatori, funzionari e alti burocrati, nobiltà. Costoro non potevano essere giudicati dai tribunali ordinari: era l’imperatore che decideva su di loro in assoluta autonomia. Tipologie particolari di persone, poi, i mandarini, ma anche i più anziani o i più deboli, potevano riscattare la pena prevista con un’altra meno grave, spesso di carattere pecuniario o che colpiva la dignità sociale . Non erano riscattabili, ne’ contemplavano esenzioni o amnistie i reati per i quali era prevista la pena di morte, quelli, cioè, che "il Cielo e la Terra non possono tollerare" e che "lo Spirito e gli uomini debbono avere in orrore" .
Le leggi erano presentate e conosciute nella forma di grandi raccolte con valore permanente e universale, assimilabili ai moderni codici. Le raccolte si succedettero nel tempo in gran numero. La concezione cinese del diritto riproponeva, praticamente invariata, in ogni nuovo codice, la parte, detta lü, costituita dalla legge degli antenati, eterna e immutabile, affiancandole il li (da non confondersi con il li regole morali), le disposizioni che adattavano la norma fondamentale alle esigenze della realtà, le misure legislative imperiali che definivano le concrete condizioni di applicazione del lü, delimitandone la portata.
Nel li trovavano spazio anche le decisioni della Corte suprema, approvate dall’imperatore, in merito a questioni complesse. Le norme contenute in questi codici non riguardavano in genere la struttura e l’amministrazione dello Stato. A questo ambito erano dedicate raccolte a parte.
Malgrado la presenza dei codici e l’imperatività delle leggi, restò il senso della norma come modello di comportamento piuttosto che come precetto assoluto e la possibilità per i giudici di allontanarsi dalla legge se le circostanze a loro avviso lo giustificassero.
Ancora nel codice civile del 1930, nella premessa alla parte relativa alla famiglia e alle successioni, si dichiara che le disposizioni che seguono sono da intendersi come regole morali e si auspica che il popolo vi si conformi sempre di più .

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