PREFAZIONE ovvero della palingenesi di un testo
di Francesco Gentile

A distanza di qualche anno, riflettendoci sopra, ho capito che ad un intellettuale, incurante dell’emarginazione che potrebbe derivargli dal rifiuto di farsi strumento del potente di turno e nel medesimo tempo consapevole della necessità di misurarsi con esso, per saggiare la potenza critica di un atteggiamento indipendente ed antesignano, non conviene né il servilismo del commesso né il narcisismo del chierico. Ma, socraticamente, l’impegno maieutico. Sicché, se un modello si volesse per lui configurare, non potrebbe essere altro che quello della "levatrice". E, come la levatrice non partorisce ma propizia il parto così l’intellettuale non costituisce la comunità, e sarebbe presuntuoso solo a pensarlo, ma ne propizia la costituzione, e sarebbe vile se non lo facesse. Rendendo percettibile e prossimo quanto vi è di comune nel sentire di soggetti diversi e talvolta distanti.
Nella particolare circostanza credo d’avere percepito nitidamente il pericolo che corre la comunità quando, per la frenesia dei politici e la neghittosità degli intellettuali, la politica si riduce a statistica. Ed ho avvertito imperioso il dovere di segnalarlo al modo che mi è congeniale. In questo crogiuolo incandescente si è maturata la palingenesi di Intelligenza politica e ragion di stato in Politica o/e statistica?.
Con un ritornello persino stucchevole, da tutte le parti, si sente ripetere che la politica è finita, disfatta nel mercato. E non c’è dubbio che lo spettacolo offerto soprattutto nella fase elettorale, dalla formazione delle liste all’utilizzo dei sondaggi, sembrerebbe confermarlo. I partiti si muovono, sempre più, come produttori in cerca di acquirenti, gli elettori, per collocare la propria merce, i candidati, sul mercato, le elezioni. In questa prospettiva, chi vende, senza curarsi troppo della qualità della merce, tende soprattutto a raggiungere il più alto numero di acquirenti, magari presentando più facce per accaparrarsi la simpatia dei più, stemperando oppure, se necessario, mascherando il proprio orientamento, annacquando i programmi, praticando il compromesso piuttosto che la scelta. Rinviando la soluzione di ogni problema ad elezioni vinte e governo guadagnato, quando per la maggioranza costituitasi sulla base di partiti "piglia tutto", agnostici ma famelici, si tratterà di occupare quanto più possibile le posizioni di potere, per far fronte alle attese pregresse dei clienti e prepararsi a quelle a venire delle future clientele elettorali. La stessa metafora del "contratto con gli elettori", rivelatasi peraltro operativamente vincente alla prova delle elezioni, manifesta involontariamente ma scopertamente una concezione mercantile della politica.
Il fatto è che oggi, paradossalmente, proprio il mercato sembra farsi promotore, anche nei confronti della politica proclive al compromesso mercantile, di un ordine non mercanteggiabile. Che cosa sono, infatti, i famosi "parametri" sanzionati dal Trattato di Maastricht, che fissano dei rapporti quantitativi tra il prodotto interno lordo e l’indebitamento annuale dello stato (3%) o il debito totale dello stato (60%), se non delle regole sottratte al mercanteggiamento, rese se possibile assolutamente rigide dall’adozione della moneta unica, in base alle quali gli Stati Membri dell’Unione Europea sono espropriati della sovranità monetaria cioè del potere indiscriminato di battere moneta? Giuseppe Guarino, in un saggio assai ficcante, intitolato a La grande rivoluzione: l’Unione Europea e la rinuncia alla sovranità del 1998, ha rappresentato efficacemente la cosa, scrivendo: "Prima era lo Stato attraverso il governo della liquidità a determinare il volume del mercato, ora è il mercato con la quantificazione del suo prodotto, il PIL, a determinare il volume possibile dell’attività dello Stato". Ed anche questo è stato assunto come segno della fine della politica.
Ora non v’è dubbio che ci sia del vero nella recriminazione di tanti, politici e giuristi, di fronte alla limitazione della sovranità degli stati. Non bisogna dimenticare però a quale smisurato debito pubblico abbia portato, nell’ultimo scorcio di secolo, l’indiscriminata sovranità monetaria degli stati, con il rischio di un impoverimento del paese al limite del fallimento. E nel medesimo tempo bisogna riconoscere che quando viene stabilito quale limite invalicabile delle decisioni politiche in tema di leggi di spesa il prodotto interno lordo, che non è qualcosa d’astratto o di virtuale ma corrisponde a qualcosa di concreto cioè a quanto sul mercato in condizioni fisiologiche si è realmente prodotto nel tempo dato, si riporta la decisione politica al rispetto di regole naturali che la precedono e inevitabilmente la condizionano, anche nel campo economico. Ad esempio, il non potersi disporre di ciò che non si ha. Evitandole, da un lato, di partire per la tangente di una virtualità incontrollata e incontrollabile, ma pericolosamente in grado di inquinare e corrompere l’esistenza umana, e consentendo, dall’altro, alla decisione politica di basarsi su qualcosa di solido, perché corrispondente alla natura delle cose. Secondo dunque un disegno politico, una politica, che non dipende incondizionatamente dalla volontà indiscriminata e gratuita di un sovrano ma deve fare, economicamente e prima ancora eticamente, i conti con l’essenza dell’uomo.
Ad una più attenta considerazione del fenomeno, per noi europei evidenziato dai parametri di Maastricht, non potrebbe sfuggire il problema dell’intreccio di politico, giuridico ed economico in considerazione del fatto elementare che l’economico, il giuridico e il politico non sono se non modi del medesimo processo di ordinamento delle relazioni tra soggetti umani. Tanto che, per ragioni non solamente linguistiche, sarebbe opportuno utilizzare al posto di politica, diritto ed economia le espressioni ordinamento politico, ordinamento giuridico e ordinamento economico. Posto che l’unico, vero, problema è quello dell’ordinamento.
Ora, proprio le recriminazioni per la fine della politica a causa del declino della sovranità degli stati mettono in evidenza fino a qual punto si sia spinta, oggi, quella che potremmo considerare come l’ultima deformazione del problema dell’ordinamento, "la statistica". Si può sostenere, infatti, che la fine della sovranità dello stato, cioè della pretesa teorizzata dalla geometria politico-legale di non riconoscere al di sopra dello stato né autorità né legge, implichi di per sé la fine della politica solo se e perché si è pregiudizialmente ed ingiustificatamente ridotta la politica a "ragion di stato", "ragione pubblica, singolare del Principe e della Repubblica in universale", per usare la formula barocca ma efficacissima del Cardinale Giovanni Battista De Luca.
Con la formula "singolare del Principe" viene, infatti, designata l’assoluta arbitrarietà della decisione politica, che sarebbe e dovrebbe essere lasciata alla mera discrezione della volontà dello stato. Con la formula "della Repubblica in universale" viene designato il totale assoggettamento del singolo alla volontà dello stato, che sarebbe e dovrebbe essere estesa su tutti e per tutto. Con l’accoppiamento delle due formule viene indicato il modo in cui si considera risolto il problema politico dell’ordinamento, mediante la sudditanza di tutti e per tutto all’arbitrio dello stato.
Per chi ne dovesse rimanere sconcertato c’è sempre il sofisma del Leviathan di Thomas Hobbes. "Si può a questo punto obiettare che la condizione dei sudditi è molto miserevole, dovendo essi sottostare ai desideri e alle altre violente passioni di colui o coloro che dispongono di un potere così illimitato: e comunemente quelli che vivono sotto un governo monarchico pensano che tale sia un difetto della monarchia, mentre coloro che vivono sotto un governo democratico attribuiscono tutti gli svantaggi a quella forma di governo, mentre il potere, sotto qualunque forma sia espresso, se è sufficientemente capace di proteggerli, è lo stesso, senza considerare che la condizione umana non può mai non essere accompagnata da qualche svantaggio e che il più grande che sotto qualsiasi forma di governo possa cadere sulle spalle di un popolo è cosa a mala pena percettibile in confronto alle miserie e alle orribili sventure che accompagnano una guerra civile o quella condizione di dissolutezza di uomini privi di una guida, senza alcun rispetto per la legge e senza un potere coercitivo che impedisca loro di commettere vendette e rapine: senza altresì considerare che anche la più grande oppressione esercitata da un sovrano non è derivata da un piacere o da un vantaggio che egli possa aspettarsi dal danneggiare o indebolire i propri sudditi, nella cui prosperità consiste la forza dei re, ma è invece provocata dalla turbolenza dei sudditi stessi, che non contribuiscono volentieri alla propria difesa e rendono perciò necessario che i governanti tolgano loro quanto possono, in tempo di pace, per poter disporre dei mezzi indispensabili a far fronte in una situazione di emergenza, in un immediato bisogno, ai loro nemici, a resistere od a sopraffarli".
E’ difficile discernere tra quanto vi sia di terroristico e quanto di consolatorio in questa ambigua ma suggestiva argomentazione hobbesiana, posto che il terrore per quanto può capitare nello stato di natura viene assunto come motivo di consolazione per quanto capita nello stato sociale. Ma è altresì impossibile negarne la stupefacente potenzialità euristica di fronte ad eventi apocalittici quali sono quelli che abbiamo sotto gli occhi, prefigurazione del collasso a cui è esposto il mondo che si affidi ad una politica ridotta a statistica.
Quando parlo di riduzione della politica a statistica mi riferisco anche, genericamente, al diffondersi della tendenza ad assumere decisioni politiche sulla base della rappresentazione numerica dei fenomeni sociali e del loro trattamento analitico per gruppi e relazioni fra gruppi, ma non solo né soprattutto. La tecnica statistica è oggi lontana mille miglia da quella di un Quételet o di un Mendel e non si lascia invischiare nel falso problema della compatibilità delle regole statistiche con la libertà soggettiva. Al politico che ne chieda l’aiuto lo statistico fornisce indicazioni sulla "frequenza" nella varietà dei casi, sulla "costanza" nella variabilità delle manifestazioni, sulla "probabilità" nell’apparente accidentalità degli eventi, dati certamente utili a formare, con altri, il quadro nel quale la decisione deve essere presa ma di per sé insufficienti e inadeguati a prenderla. Sicché, se qualche "politico di professione" dovesse illudersi di poter basare le sue scelte sulla regolarità statistica, sarebbe la professionalità dello statistico a dissuaderlo dal commettere un errore tanto stupido quanto pericoloso.
Quando parlo di riduzione della politica alla statistica mi riferisco a qualcosa di specifico e di ben definito, collegato al concetto stesso di statistica, allo stesso nome statistica, che sul vocabolario italiano si trova, e pour cause, come derivato di stato. Ma la cosa è destinata a risultare assai più interessante e significativa se si risale all’antecedente storico della Staatistik.
Nella seconda metà del XVIII° Secolo, anche a Gottinga soffiavano i venti dell’Illuminismo e nella Facoltà giuridica maturava la riforma degli studi sulla base di un Progetto per un’enciclopedia giuridica, predisposto da J. S. Pütter. Entwurf einer juristischen Encyclopädie, nebst etlichen Zugaben 1. von der Politik, 2. von Land- und Staat-gesetzen, 3. von brauchbaren Büchern. L’evolversi della vita politica, sociale ed economica dell’impero richiedeva urgentemente una nuova sistemazione della materia giuridica, divenuta sempre più ampia e complessa, non più inquadrabile negli schemi della vecchia accademia. In questo contesto assunse un ruolo cardinale "la cosiddetta Staatistik, cioè la scienza dello stato (Staatswissenschaft)", come scrive, nel suo Abriss der neuesten Staatwissenschaft der vornehmsten Europäischen Reiche und Republiken del 1749, G. Achenwall, professore insieme di Statistica, nell’ordine del nuovo, e di Diritto naturale, nell’ordine del vecchio.

Pages 1 2 3 4 5 6 7 8 9