PREFAZIONE ovvero della palingenesi di un testo
di Francesco Gentile

Ebbene in quel frangente, a cavallo fra gli Anni Settanta e Ottanta, mi parve che fosse necessario rompere l’innaturale identificazione di politica e ragion di stato senza tuttavia cadere nel tranello utopistico di separare la politica dalle istituzioni, e questo non mi parve possibile se non attraverso una puntigliosa ricerca delle aporie della scienza politica moderna da condursi con il metodo dialettico della filosofia classica, ossia perenne, per ricuperare l’intelligenza politica che sola consente anche a quella di stato d’essere pur sempre una ragione. Ecco perché Intelligenza Politica e Ragion di Stato, le cui premesse teoriche erano state poste nella "prolusione", così si chiamava allora secondo la tradizione accademica la prima lezione di un professore "straordinario", su Morte e trasfigurazione della politica nell’ideologia, del 1976. Ma nuovi tempi stavano maturando.
Alla fine degli Anni Ottanta, risolti o meglio neutralizzati in qualche modo, e il modo non fu certo senza traumi, gli eccessi partigiani della contestazione ma ancora stretti nella morsa dello scontro tra ragion di stato dell’Ovest e ragion di stato dell’Est, che aveva provocato quella contestazione e l’aveva alimentata sino alla sua degenerazione, in Europa, perché era solo in una dimensione europea che i problemi ormai si ponevano, si viveva una fase di depressione. Tanto che le profezie di Alain Minc, ex-allievo dell’ENA, già ispettore delle Finanze francesi e direttore della Saint-Gobin, sembravano assai prossime al vero. "Sotto l’influsso dei fardelli che ci dominano, economici, demografici, strategici, si disegnano scenari chimicamente puri. Il più probabile è l’Europa/Hong Kong, enorme zona di democrazia e di economia di mercato, priva fra trent’anni di qualsiasi identità strategica, polmone del mondo sovietico, ma anche semiprotettorato: situazione che vivremo senza tensione né rivolta, perché il peggio sarà proprio la morbidezza di questa finlandizzazione del ventunesimo secolo. (…) Con questa Hong Kong democratica – era la conclusione del tecnocrate liberal – ancora prospera, a-strategica, senza sbandierarlo, usciremo in punta dei piedi dalla Storia o almeno da quella che si produce, che si muove e che vibra".
I fatti, con il loro tumultuoso succedersi, hanno sconvolto ogni previsione. Nel 1989 è caduto il muro di Berlino; nel 1990 la Germania si è riunita; nel 1991 è crollato il regime comunista in Unione Sovietica; nel 1992, con la firma del Trattato di Maastricht, si è avviata la più radicale riforma politica europea del XX° Secolo.
Nell’immaginario collettivo il muro di Berlino rappresentava fisicamente e moralmente la politica dei blocchi, quella sancita a Yalta, alla fine della terribile guerra che, nel 1948, quando fisicamente il muro ancora non c’era ma se ne stavano mettendo moralmente le fondamenta, faceva scrivere a Guido De Ruggiero che "l’aspetto più preoccupante dell’indebolimento dello spirito europeo non stava tanto nella formazione dei grandi blocchi, quanto nella rassegnazione con cui gli uomini avevano accettato la divisione che si andava creando come se fosse qualcosa di irrimediabile".
Con la sua permanenza, quel muro era il simbolo odioso della capitis deminutio dell’Europa, perché "da una parte e dall’altra della muraglia di cemento l’Est e l’Ovest si fronteggiavano senza che né da una parte né dall’altra l’Europa avesse conquistato lo spazio della sua indipendenza". Con il suo crollo inopinato, quel muro diveniva il simbolo di un rinnovamento radicale. Perché il crollo del muro di Berlino non è stato determinato dal sopravvento di una delle due contrapposte superpotenze, che bloccavano gli equilibri del mondo, tra Oriente ed Occidente, e neppure dall’emergere di una terza forza. L’equilibrio astratto dei blocchi, architettato a Yalta e operativamente predisposto dalla politica internazionale dei vincitori della Seconda Guerra Mondiale, si è dissolto perché uno dei due pilastri su cui si reggeva ha ceduto di schianto, per un vizio interno, potremmo dire congenito. Col disorientamento anche di quello, dei due pilastri, che per non essere caduto si autoproclamava vincitore, in un modo così goffo da preannunciare per bocca di un oscuro funzionario del Dipartimento di Stato, Francis Fukuyama, la "fine della storia". E l’Europa?
Di fronte al disfacimento del pilastro orientale del sistema dei blocchi, di fronte a questa "pace" per mancanza di belligeranti, l’Europa, con la sola eccezione del Pontefice Romano, sperimentava anch’essa lo sconcerto tanto da trovarsi coinvolta, sebbene contro voglia, poco convinta, riluttante, nelle prime "operazioni di polizia" del nuovo ordine mondiale di impronta occidentale, già peraltro marcate dal segno funereo della "fine", che i bagliori sinistri dei pozzi del Kuwait e la distruzione di Bagdad rendevano persino fisicamente percettibile. Ma soprattutto sperimentava, in maniera inequivocabile, come non vi fosse spazio per la sua indipendenza neppure nell’ambito dell’ideologia occidentale, che pure al tempo della contrapposizione di Oriente e Occidente le aveva assicurato la sopravvivenza. Una sopravvivenza senza reale indipendenza.
Ancora una volta, sebbene in termini nuovi, l’Europa deve affrontare il problema della sua integrazione che sempre più chiaramente appare come l’unica via per la sua rinascita e nel medesimo tempo per il suo affrancamento dalle contrapposte ideologie che hanno bloccato il mondo per tanto tempo. Non pensi il lettore che mi sia dimenticato di lui e del libro! L’impegno a rompere l’innaturale riduzione della politica alla ragion di stato, che aveva portato all’inaridimento del confronto politico nella mera contrapposizione di blocchi di potere, nel grande come nel piccolo, venne assumendo un significato nuovo nella nuova temperie. Mi è caro ricordare le discussioni accalorate di quegli anni con gli studenti, stupiti del fatto che si potesse dibattere dell’attualità politica nell’ambito istituzionale di un corso accademico, senza che questo dovesse assumere la forma della violenza sulle istituzione né provocare la "violenza" delle istituzioni. E in questo contesto, benché con curvatura diversa, il libro continuava ad esercitare la sua funzione maieutica, con la puntigliosa determinazione a scavare nel patrimonio della cultura politica europea, senza preconcetti ma anche con la pronta disponibilità a riconoscere l’élencos, la prova non contraddittoria, che la radicale problematicità propiziata dalla filosofia (amore del sapere e non immediatamente sapere, non lo si dimentichi mai) consente.
Debbo, in particolare, ricordare le discussioni sulla "fine della storia" che animarono gli incontri patavini degli studenti di giurisprudenza e di filosofia organizzati con il compianto collega Giovanni Romano Bacchin, da cui sempre mi divise l’hegelismo ma a cui per sempre mi ha legato il Verbo. Il tema era stato posto dall’affermazione arrogante di Fukuyama, peraltro coonestata dalla rivista accademica "National Interest" di Harvard: "L’universalizzazione della democrazia liberale occidentale, come forma finale del governo umano, costituisce il punto terminale dell’evoluzione ideologica dell’umanità". Un tema non nuovo, solo che si fosse andati con la memoria ad un altro momento della cultura occidentale, nell’ultimo lembo degli Anni ’30 del XX° Secolo. Anche le cronologie talvolta sono inquietanti.
Allora, a Parigi, in una piccola aula de l’École Pratique des Hautes Études, tiene lezione un russo fuggito dall’Unione Sovietica, Alexiei Kojevnikof; ad ascoltarlo ci sono un Georges Bataille ed un Jean Paul Sartre, un Jacques Lacan ed un André Breton, un Merleau-Ponty. Kojevnikof legge Hegel. Lo commenta, rappresentandolo come il pensatore dell’epilogo soddisfatto, l’unico pensatore, quello che ha messo il sigillo del compimento sul pensiero, avendone sciolto gli enigmi e offerta la ricapitolazione. "Il filosofo – scrive – ha raggiunto il suo scopo, cioè la saggezza, per ciò ora risulta impossibile modificarsi e cioè superare la coscienza che si ha già in sé!". "L’uomo non può più agire nel momento in cui gli obiettivi umani sono già effettivamente realizzati". "Il cerchio del tempo non può essere percorso che una sola volta; la storia finisce e non ricomincia più".
Non so se quello di Kojève sia il vero Hegel, ma non v’è dubbio che il russo, ormai francesizzato, ne dia una rappresentazione suggestiva e comunque congeniale ad una certa eredità hegeliana; mettendo in luce il plesso teorico che l’espressione "fine" bene rappresenta. Perché "fine", al femminile, significa confine, limite, termine, esaurimento, morte. Ma "fine", al maschile, significa scopo, compimento, realizzazione, pienezza. E tra l’uno e l’altro significato si può stabilire una relazione immediata in duplice senso. Per un verso, si può essere portati a connettere pienezza e morte: nel senso che al raggiungimento "del" fine corrisponderebbe l’avvento "della" fine. E, per altro verso, si potrebbe essere portati a connettere morte e pienezza: nel senso che all’avvento "della" fine corrisponderebbe il raggiungimento "del" fine. Non so se quello di Kojève fosse il vero Hegel come non so se quella di Fukuyama fosse l’interpretazione autentica del pensiero del Dipartimento di Stato. Tra parentesi potrebbe essere interessante ricordare come anche Kojève sia stato un funzionario ministeriale (del Ministère des Affaires Economiques) e come, da chargé de mission, abbia presieduto alle più importanti risoluzioni in materia di legislazione commerciale internazionale del secolo; porta la sua firma il sistema delle tariffe doganali adottato al Kennedy-round. Non so, ripeto, se Fukuyama fosse l’interprete fedele del governo degli Stati Uniti, ma, rileggendolo, non si può non riconoscere, dietro alla idillica esaltazione dell’ultima, residua, superpotenza, il profilo arcigno del nichilismo che Kojève aveva tematizzato prima di dedicarsi alla diplomazia economica, da estensore dell’epitaffio del nostro tempo oltre che da suo scrupoloso esecutore testamentario.

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