MECCANIZZARE IL GIUDIZIO PER CONSEGUIRE CERTEZZA DEL DIRITTO.
Considerazioni intorno alla possibilità di percorrere tale itinerario
di Marco cossutta

6. Una risposta calcata sulla giurisprudenza costituzionale.

Le argomentazioni sopra esposte possono ritrovare attuazione nell’ambito del giudizio penale, anche per questo è indubitabile l’impossibilità d’uno sviluppo logico deduttivo. Punto di partenza per una succinta esposizione del problema è offerto dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 364 del 1988, richiamata, fra gli altri, da Borruso in materia di certezza del diritto .
In tale sentenza va immediatamente evidenziata la negazione assoluta dell’automatica applicazione della legge penale desumibile da quanto la Corte rileva in merito alla questione dell’ignoranza della legge: "ove, infatti, s’accettasse il principio dell’assoluta irrilevanza dell’ignoranza della legge penale si darebbe incondizionata prevalenza alla tutela dei beni giuridici a scapito della libertà e dignità della persona umana, costretta a subire la pena (la più grave delle sanzioni giuridiche) anche per comportamenti (allorché l’ignoranza della legge sia inevitabile) non implicanti consapevole ribellione o trascuratezza nei confronti dell’ordinamento".
L’assolutizzazione del principio contenuto nell’articolo 5 del Codice Penale apre la strada di per sé all’applicazione automatica della pena, attraverso la rappresentazione delle fattispecie astratte nei termini di giudizi condizionali del tipo "se A, allora B"; questi ritrovano la loro concretizzazione per mezzo del procedimento di sussunzione, della fattispecie concreta nella fattispecie astratta, in cui si esaurirebbe, per motivi tecnici, il dispiegarsi del giudizio in un sistema informatico.
La Corte Costituzionale rammenta che più volte è stata "ricordata la strumentalizzazione che lo Stato autoritario aveva operato del principio dell’assoluta irrilevanza dell’ignoranza della legge penale […] ed affermata la necessita, per la punibilità del reato, dell’effettiva coscienza, nell’agente, dell’antigiuridicità del fatto".
Non si dà reato per la Corte a fronte della sola antigiuridicità di un fatto, ci deve essere effettiva coscienza di commettere una reato affinché questo di costituisca.
Richiamamo Giuseppe Bettiol: "il reato non si esaurisce nella sola tipicità del fatto […] non è ancora reato perché manca la possibilità di esprimere un giudizio di valutazione sul carattere lesivo del fatto stesso […] L’antigiuridicità diventa il secondo aspetto costitutivo del reato […] L’antigiuridicità formale è solo un sinonimo della tipicità del fatto, mentre l’essenza dell’antigiuridicità sta nella lesione dell’interesse. Si tratta di un giudizio, o valutazione, che deve essere espresso sul carattere lesivo del fatto in quanto non conforme alle esigenze di tutela dell’ordinamento giuridico […] Il reato non è solo nella tipicità ed antigiuridicità del fatto di un soggetto. Esso è anche nella colpevolezza" .
Infatti, la Corte afferma: "per precisare ancor meglio l’indispensabilità della colpevolezza quale attuazione, nel sistema ordinario, delle direttive contenute nel sistema costituzionale vale ricordare non solo che tal sistema pone al vertice della scala dei valori la persona umana (che non può, dunque, neppure a fini di prevenzione generale, essere strumentalizzata) ma anche che lo stesso sistema, allo scopo d’attuare compiutamente la funzione di garanzia assoluta del principio di legalità, ritiene indispensabile fondare la responsabilità penale su congrui elementi subiettivi […] Nelle prescrizioni tassative del codice il soggetto deve poter trovare, in ogni momento cosa gli è lecito e cosa gli è vietato: ed a questo fine sono necessarie leggi precise, chiare, contenenti riconoscibili direttive di comportamento. Il principio di colpevolezza è, pertanto, indispensabile, appunto anche per garantire al privato la certezza di libere scelte d’azione: per garantirgli, cioè, che sarà chiamato a rispondere penalmente solo per azioni da lui controllabili e mai per comportamenti che solo fortuitamente producono conseguenze penalmente vietate; e, comunque, mai per comportamenti realizzati nella non colpevole e, pertanto, inevitabile ignoranza del precetto".
In tale contesto un giudizio obbiettivo non può esplicarsi attraverso la logica deduttiva. Anche in tale ambito, nella valutazione del fatto, nel costituirsi del reato, concorrono fattori non ricompresi dalla fattispecie astratta, ma non per questo ignorati dal diritto penale, se è vero che alla fattispecie si può ricondurre soltanto la cosiddetta tipicità del fatto o antigiuridicità formale, ma certamente non l’individuazione dell’elemento della colpevolezza, indispensabile, come indica la Corte acciocché si dia reato e, quindi, punibilità.
"Collegando il primo al terzo comma dell’articolo 27 della Costituzione, agevolmente si scorge che, comunque s’intenda la funzione rieducativa [… della pena …] essa postula almeno la colpa dell’agente in relazione agli elementi più significativi della fattispecie tipica. Non avrebbe senso la rieducazione di chi – sottolinea la Corte Costituzionale – non essendo almeno in colpa (rispetto al fatto) non ha certo bisogno di essere rieducato. Soltanto quando alla pena venisse assegnata esclusivamente una funzione deterrente (ma ciò e sicuramente da escludersi nel nostro sistema costituzionale, data la grave strumentalizzazione che subirebbe la persona umana) potrebbe configurarsi come legittima una responsabilità penale per fatti non riconducibili alla predetta colpa dell’agente, nella prevedibilità ed evitabilità dell’evento".
Parimenti, nella stessa determinazione della pena, campo d’applicazione del sistema informatico esplicitamente indicato da Borruso nella voce qui richiamata, si intrecciano elementi difficilmente algoritmizzabili.
Per il nostro Autore, "la valutazione delle variabili, la cui combinazione dà luogo alle singole fattispecie e di cui tener conto ai fini delle determinazioni quantitative, oggi viene eseguita dal giudice il più delle volte necessariamente "ad occhio", cioè con una motivazione globale o "sintetica" che di si voglia, nella quale non v’è sempre la possibilità di verificare se tutte le componenti dei giudizi pregressi siano state effettivamente prese in esame, anche nel nuovo, quale peso specifico sia stato attribuito comparativamente a ciascuna di esse, se tali componenti e tali pesi siano gli stessi usati in passato, sicché le ingiustizie si avvertono solo in taluni casi per ceti aspetti più macroscopici (si pensi, ad esempio, all’applicazione dell’art. 133 c. p.)" .
In un contesto matematicizzato, come quello propostoci da Borruso, il giudice, nel determinare, ad esempio, l’ammontare della pena pecuniaria avuto riguardo alle condizioni economiche del reo, ex articolo 133 bis del Codice Penale, dovrebbe imbarcarsi in un’operazione di calcolo dell’utilità marginale, al fine di derivare l’esatta misura dell’afflizione in una determinata condizione economica; lo stesso dicasi per l’aumento o la diminuzione della pena pecuniaria stabilita dalla legge a fronte delle condizioni economiche del reo, o, ancora, del suo pagamento rateale, come previsto, sempre avuto riguardo alle condizione economiche del condannato, dall’articolo 133 ter del Codice Penale.
Fatto salva la posizione della Corte Costituzionale, che comunque si riferisce al un momento anteriore alla determinazione della pena, pare in ogni caso arduo ritenere che la determinazione sia la risultante di un puro procedimento di calcolo.
In proposito la Cassazione indica che l’eventuale calcolo andrebbe eseguito "dopo aver provveduto a determinare nei modi ordinari quella pena, secondo i criteri di cui all’art. 133 c. p.". Per cui la pena pecuniaria non è correlata soltanto al reddito o alla capacità economica del reo, è altresì conseguenza della gravità del reato, desumibile dai parametri indicati al comma primo del richiamato articolo, nonché della "capacità a delinquere del colpevole", come recita il comma secondo. Infatti la Cassazione afferma che nella determinazione dell’entità della pena rilevano fattori difficilmente calcolabili matematicamente, quali, ad esempio, il giudizio sulla personalità del reo "fondato su episodi e circostanze anche successivi alla commissione del reato […] purché siano espressione di un modo costante di determinarsi, immanente alla personalità", o, ancora, "la confessione […] può giovare ai fini della commisurazione della pena […] sempre che valga a dimostrare una minore disposizione o inclinazione del colpevole a commettere reati" ; allo stesso modo la Suprema Corte afferma che va valutato "il comportamento processuale […] che racchiude le più svariate manifestazioni della condotta del reo nel procedimento".

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