B. MONTANARI (a cura di), La possibilità impazzita. Esodo dalla modernità
Giappichelli, Torino 2005, pp. VIII+430
di Federico Reggio

Comprendere come si è venuta a configurare l’attitudine dominativa nei confronti della realtà che sembra caratterizzare il sapere tecnico-scientifico contemporaneo diviene quindi fondamentale per riflettere sulle categorie filosofiche e sugli strumenti politici e giuridici idonei a misurarsi con i rischi e i vantaggi offerti dalle accresciute capacità tecniche dell’uomo. A questo proposito il testo presenta due interessanti chiavi di lettura, offerte rispettivamente da Barbara Troncarelli e da Emanuela Gambini: la prima ripercorre lo sviluppo della razionalità moderna e ne individua – come fondamentale lascito ereditato dalla contemporaneità – un’attitudine riduzionistica nei confronti della realtà che si trova emblematicamente racchiusa nel primato accordato (tanto in ambito scientifico quanto in ambito giuridico) alla logica formale; la prospettiva nella quale si colloca invece Emanuela Gambini si incentra invece su un’analisi – svolta anche attraverso la lettura di alcuni significativi casi giurisprudenziali – dell’evoluzione della metafora di ‘natura’ nell’età moderna, quale specchio del modo d’intendere il rapporto tra uomo e realtà.
Entrambe le prospettive d’indagine mostrano come la peculiarità della prospettiva moderna risieda nel congedo dall’idea ‘organica’ di natura tipica dell’orizzonte greco-romano in favore di una visione nella quale la natura è sempre più intesa come un ‘meccanismo’, un insieme di fenomeni, scientificamente analizzabili dal soggetto-conoscente e, proprio perciò, assimilabile ad ‘oggetto’ scomponibile e manipolabile.
L’emergenza bioetica dei nostri tempi sorge appunto quando sottoposto alla conoscenza e alla capacità manipolativa diviene l’uomo stesso, da cui scaturisce la domanda: egli è ancora un soggetto o viene ridotto al rango di oggetto?
La capacità tecnica diviene – come ricorda Nino Cortese – una sorta di vaso di Pandora, dal quale scaturiscono per l’uomo un insieme di potenziali ed attuali minacce che invocano regolamentazione: il diritto, tuttavia – anche quello delle Corti, ritenuto dall’Autore più adeguato rispetto allo strumento legislativo per rispondere con rapidità ed elasticità all’attuale e magmatica situazione – sembra invocare proprio dalla scienza l’indicazione di parametri atti ad indirizzare il giurista nella sua valutazione [4] . Alla domanda sulla prevedibilità scientifica delle conseguenze della scienza – l’invito di Cortese ad astenersi da un approccio etico, nel quale si cela il pericolo “di terribili ricadute ideologiche e che non tollerano il dibattito e il controllo democratico”, e di affrontare giuridicamente “l’incertezza della scienza” esplicitando e rendendo “controllabili i criteri di valutazione delle proposizioni scientifiche sottese alle proprie decisioni” e con ciò facendo ricorso a “metodologie e procedure scientifiche”, sembra giungere ad un esito paradossale: come ricorda infatti Barbara Troncarelli, il pensiero contemporaneo – che da sistematico si rende sempre più sistemico, ossia coerente solo in un orizzonte situazionale ed autoreferenziale – è intriso di un relativismo nel quale “non esistendo (…) una razionalità intrinseca al reale, la conclusione più logica più conseguente è l’affermazione di una razionalità strumentale, in base alla quale le scelte sono tra loro funzionalmente equivalenti”. Ne consegue, come osserva la studiosa, “che alla incessante ricerca di una conoscenza scientifica delle cose (…) viene anteposta per esigenze di mercato quella della loro utilizzabilità, che di frequente richiede l’emarginazione di indagini scientifiche non aventi una immediata o potenziale ricaduta in termini di profitto”. Pensare pertanto di ritrovare limiti ai pericoli della scienza restando all’interno dell’attitudine scientifica rischia di tradursi in una pura certificazione della scienza come forma di ‘potere’: descrivere come tale potere si è venuto ad estrinsecare, ed attraverso quali logiche – dalle quali, come si è visto, non sono esenti valutazioni ben estranee alla ‘curiositas scientifica’ – non significa fornirvi un limite, bensì una possibile legittimazione. E questa, tuttavia, sarebbe proprio un’opzione chiaramente ‘etica’ per non dire ideologica. Senza dimenticare che la pretesa oggettività del sapere scientifico costituisce un argomento tanto persuasivo quanto fallace, stante la struttura ipotetica che caratterizza il ragionamento scientifico.
Il problema etico, quindi, non può essere eluso, nemmeno limitandosi (come pare invece suggerire Ulrich Beck, uno dei punti di riferimento comuni agli autori del testo) al problema di ‘come sopravvivere’ nella ‘società del rischio’: prima bisognerebbe spiegare perché è necessario (o anche solo opportuno) sopravvivere e garantire l’altrui sopravvivenza, ossia affrontare quel pericolo ‘suicida’ delle società occidentali per il quale Hans Jonas invocava la riscoperta di un’etica della responsabilità. Salvatore Amato si misura nel suo saggio con queste problematiche rivelando come le categorie filosofiche e politiche contemporanee appaiano non di rado inadeguate a rapportarsi con l’emergenza bioetica. Il riferimento – per riprendere anche alcune ascendenze ascrivibili ad Habermas – al ‘bene supremo’ della democrazia pluralista, non appare infatti sufficiente laddove si rimanga all’interno di un quadro ideologico per il quale qualsiasi invito ad una limitazione alla scienza è visto come un ‘condizionamento religioso’ o un ‘ritardo culturale’, e, in definitiva, come un attentato alla democrazia: in quest’ottica – oggi peraltro dominante – legittimare ciò che è scientificamente possibile appare doveroso perché significa in ogni caso ampliare le sfere di libertà e di benessere. Questo atteggiamento si colloca in un paradigma di pensiero che considera la libertà come un ‘poter fare’, ed il benessere come ‘disporre di un ampio spettro di tali possibilità’: una libertà, a ben pensare, solo apparentemente ‘propria’ di ogni persona, visto che appare inscindibilmente legata alla porzione di ‘potere’ di cui ciascuno dispone. Questo modello, tuttavia, appare compatibile con un fondamento democratico fin tanto che lo spazio di libertà e di non interferenza reciproca rimane entro l’illusione del ‘pluralismo’, ossia fin tanto che il conflitto interindividuale non si esplicita oltre certi livelli, superati i quali sembra logico che solo il potere sia il criterio regolativo a cui appellarsi.
Per questo il riferimento di Amato ad un concetto di responsabilità e di diritto rivolti al futuro appare comprensibile solo uscendo dal modello di pensiero ‘oggettivante’ e ‘solipsistico’ che la contemporaneità ha ereditato dalla modernità: come ricorda Barbara Troncarelli, l’idea che il diritto giunga a porsi come mero “riconoscimento pubblico del potere della scienza” è un esito possibile, ma non inevitabile del pensiero contemporaneo. Per evitarlo occorre – secondo la studiosa – uscire dalle maglie della logica formale ed aprire la conoscenza alla complessità del reale, rinunciando ad opzioni riduzionistiche. Ciò significa, per venire al diritto – ma forse lo stesso potrebbe dirsi anche per le discipline scientifico-tecnologiche – ripensarlo “come una rilevante espressione della dinamica dialettica e relazionale del mondo umano”.

Umano? troppo poco umano.
La riflessione sul mondo umano e sulla sua dimensione ‘politica’, in senso classico, mostra quindi il suo legame stretto con le tematiche sinora esaminate, e costituisce il terreno nel quale sono collocate le riflessioni dei restanti autori. Esse si misurano anche in quest’ambito con un generale disorientamento che caratterizza la condizione contemporanea, sempre maggiormente alle prese – come ricorda Alberto Andronico – con ‘discrepanze’ o ‘sconfinamenti’ dalle tradizionali chiavi di lettura della realtà, tali addirittura da rivelare l’inadeguatezza di parole e concetti rispetto all’emergere di nuovi problemi. Emblematica, a questo proposito, la situazione esplosa con l’11 settembre: una guerra di ‘reti’ contro lo Stato, dove il nemico è ovunque e nel contempo non ha un luogo preciso; uno stato di generale pericolo, nel quale non esiste un confine entro cui difendersi né un territorio nel quale respingere il nemico.
Questo è solo uno dei tanti esempi di quella ‘rarefazione’ della territorialità tipica del contesto contemporaneo, rispetto alla quale gli strumenti politici e concettuali tradizionali appaiono inadeguati anche solo ad intraprendere un’analisi critica della realtà. Diviene quindi urgente interrogarsi sull’esistenza o la pensabilità di un modo per organizzare il potere al di fuori di territori, confini, centri: in una parola, sulla ‘governance’. Leggendo i testi de ‘La possibilità impazzita’ si ha la sensazione che questa sia la linea di confine donde si stende il terreno inesplorato: al momento il concetto di governance sembra infatti esprimere un’aspirazione, forse una nostalgia, più che una realtà dotata di una definizione sufficiente per potervi comprenderne i contorni.
Nella certezza che, come osserva Michele Greco, “non si può replicare al disordine determinato dalla crisi del ‘modello Westfalia’ con l’elementare riproduzione a livello globale di una struttura fondata sugli stessi canoni della sovranità statuale”, l’evoluzione giuridico-internazionale sembra configurare la governance muovendosi su due direzioni apparentemente opposte ma non auto-escludentesi: da un lato la sempre maggiore estensione di strumenti di regolazione affidati ad una logica consensuale, per non dire contrattuale; dall’altro lato la creazione di spazi di tutela internazionali nei quali il diritto viene esercitato anche in forme cogenti attraverso organizzazioni o istituzioni sopranazionali. Nel primo ambito non si tratterebbe solamente di un’estensione dello strumento pattizio inter-statuale, quanto piuttosto di forme di regolazione di tipo contrattuale nelle quali entrano a pieno titolo, come contraenti, soggetti privati e pubblici.
Per quanto concerne invece la seconda sfera – attinente soprattutto all’ambito dei ‘diritti indisponibili’ – “mentre la dottrina è impegnata nel teorizzare nuove istituzioni politiche che siano in grado di governare il dis-ordine mondiale che regna nell’epoca della globalizzazione”, Greco rileva che sono entrate supplettivamente in causa, “come spesso avviene in caso di vacanza normativa o istituzionale, le Corti”. Lo studioso ripercorre l’importante evoluzione del diritto avvenuta grazie alla giurisprudenza in tema di tutela dell’ambiente: dall’osservazione di questo specifico settore dell’esperienza giuridica osserva che il lavoro delle Corti di giustizia – quasi a ripercorrere i passi dello jus pretorium in epoca tardo-repubblicana – si rivela uno strumento particolarmente agile ed efficace per la sua capacità di disciplinare situazioni inedite superando la logica della ‘tipicità’ giuridica ed affrontando invece un ragionamento fondato sull’interpretazione dei principi fondamentali. Dalla logica normativistica della ‘applicazione del diritto’ si passerebbe al primato di una logica di lettura del problema concreto alla luce di principi fondamentali dotati di validità erga omnes, come, ad esempio, i diritti umani. Se da un lato questa prospettiva appare promettente, bisogna tuttavia rilevare in sede critica che gli stessi diritti umani sono oggetto di una tipizzazione, e che la loro interpretazione è fortemente condizionata a sua volta da assunti culturali ed etici rispetto ai quali l’attività della giurisprudenza non può dirsi immune. Rimane quindi ancora aperto il problema di quale metodo presieda la ‘normazione per principi’ attuata dalle Corti e, soprattutto, il problema di come sottoporla ad un controllo di razionalità senza il quale altri strumenti di controllo democratico (o di contrappeso politico) potrebbero offrire una tutela meramente formale.
A rendere ancora più complessa la situazione attuale – resa già di difficile lettura a causa dello sfaldamento di punti di riferimento concettuali tipici della filosofia politica moderna – interviene la constatazione per la quale in crisi non sarebbe solo il concetto di Stato, bensì anche quello di individuo. Anch’esso è infatti coinvolto – come osserva Alessio Lo Giudice – nella generale perdita di punti di riferimento che caratterizza il contesto attuale, tanto da rendersi ‘homo optionis’: un uomo talmente individualistico e slegato da condizionamenti tradizionali da vedersi caratterizzato non propriamente dalla dimensione esistenziale della ‘scelta’ – che pur sempre rinvia ad una certa qual consapevolezza e ad una previa analisi critica – bensì piuttosto dalla semplice ‘potenzialità’ di condurre la propria volontà verso direzioni tra loro indifferenti.

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