DALL’AUTONOMIA RADICALE ALL’AUTONOMIA ASSOLUTA.
ANNOTAZIONI CRITICHE SUL DISCORSO DELL’ISTITUZIONE
DI CORNELIUS CASTORIADIS
di Ferdinando G. Menga
Eberhard Karls Universität – Tübingen

Ebbene, proprio a quest’altezza, è importante non precipitarsi in risposte affrettate, ma adottare la cautela necessaria al fine di illustrare come sia esattamente la progressione dell’«anteriore» e del «posteriore» a risultare fuorviante per una corretta comprensione del rapporto fra rappresentanza e riconoscimento. E questo dal momento che, a prescindere dalla successione che si scelga, l’utilizzo stesso di tale schema di progressione comporta il diniego della dinamica di costituzione contingente e politica della sfera collettiva e del suo mondo, con l’immancabile conseguenza di una lacerazione irreversibile della relazione stessa fra rappresentanza e riconoscimento.

a. Primato della rappresentanza sul riconoscimento
Analizziamo la prima combinazione possibile. Se si pone l’anteriorità della rappresentanza e la mera posteriorità del riconoscimento, assegnando così carattere esclusivamente creativo alla prima e unicamente confermativo alla seconda, il quadro che si compone è quello di una costituzione collettiva che si consuma fondamentalmente nel momento rappresentativo e che, perciò, nulla ha da aspettarsi dal riconoscimento, il quale al massimo funge da mera appendice.
La strutturazione di potere decisamente verticale alla base di questa prima opzione, come è facile notare, riesce a dare pieno riscontro al carattere contingente dell’emersione della sfera d’apparenza del mondo e della configurazione sociale corrispondente; tant’è che non si dà situazione più contingente di quella prevista da un’insorgenza dello spazio collettivo totalmente rimessa alla sola, esclusiva ed arbitraria capacità creativa dei singoli.
Sennonché, è qui che si pone un’insuperabile incongruenza dovuta al fatto che, nella misura stessa in cui si ipostatizzano congiuntamente contingenza e verticalità del potere, si cede massimamente ogni capacità di dare effettiva esplicazione alla politicità della costituzione del mondo. E questo dal momento che una situazione dominata dalle condizioni estreme di un potere assoluto dei singoli (che rappresentano) e nullo della collettività (che riconosce) pone l’ingiustificabile pretesa di fondare l’emersione della sfera d’apparenza collettiva segnatamente sull’esclusione della partecipazione stessa della collettività. L’inevitabile risvolto è che l’istanza e il motivo propulsivo da cui il soggetto dovrebbe essere spinto a produrre significati con destinazione sociale viene a coincidere paradossalmente con la sua stessa condizione di isolamento, la quale però, a rigor di logica, non può che escludere qualsivoglia esteriorizzazione verso la collettività. La necessaria implicazione che se ne trae è che l’unica condizione possibile affinché la produzione di significati collettivi (ovvero capaci di fondare una sfera politica) possa provenire da un soggetto è che costui abbia già sempre subìto l’effrazione dello spazio del proprio isolamento, attraverso l’anticipazione dell’eventuale accoglimento degli stessi da parte della collettività. [55] Ma ciò vuol dire, a sua volta, che una singolarità costituisce significati tali da lasciare insorgere una sfera collettiva solo a patto che quest’ultima, col suo riconoscimento, abbia già sempre retroagito nella scena stessa della creazione di tali significati e, retroagendo, abbia già sempre costretto il soggetto a non essere semplice produttore, ma anche «rappresentante» della stessa collettività di cui egli soltanto lascia emergere l’assetto significazionale.
Possiamo quindi mettere a conto la prima conclusione: non appena viene posta, una mera anteriorità della rappresentanza sul riconoscimento, mancando essa di dare riscontro alla caratura politica e compartecipata della costituzione del mondo, non può che ripercuotersi su se stessa con effetti laceranti. Infatti, se analizziamo con circospezione la situazione estrema di una fondazione dello spazio collettivo su un potere assoluto della rappresentanza, ci accorgiamo che qui non è più nemmeno di rappresentanza che si può appropriatamente parlare; infatti, quest’ultima, nella misura in cui pretende di fornire essa soltanto l’apporto essenziale, sbarazzandosi così della necessità di un costitutivo riscontro nel riconoscimento (che tutt’al più può fingere), in fondo non è più rappresentativa di nulla, essendo già sempre degenerata in dinamica d’imposizione. E che quest’ultima opzione, da parte sua, non possa essere nemmeno perseguita è dato dal fatto che, a meno che non si voglia mettere a repentaglio la tenuta stessa dello spazio politico, una pura imposizione può essere al massimo approssimata, ma mai pienamente realizzata. Tant’è vero che nemmeno la configurazione politica in cui l’imposizione si esprime in forma più decisa, vedi il regime totalitario, può costituirsi e mantenersi in vita senza l’intervento effettivo di un riconoscimento collettivo e, dunque, di una seppur minima forma di reale rappresentatività.
Tutto questo ci autorizza a concludere che il riconoscimento, in quanto si dimostra elemento irrinunciabile addirittura per quella costituzione dello spazio politico che ne tenta l’estromissione, non risulta momento solo derivato e confermativo, ma assume anche un ruolo immancabilmente costitutivo e creativo. [56] D’altronde, è proprio su questa ineludibilità del riconoscimento, espressione dell’inaggirabilità e inalienabilità del potere collettivo, che si radica l’originario carattere democratico di ogni spazio politico e, di conseguenza, la possibilità della sua riaffermazione anche a partire da condizioni che esplicitamente tendono a soffocarlo.

b. Il primo del riconoscimento sulla rappresentanzaat
Questa conclusione, che sottrae forza a un’espressione meramente transitiva del potere controbilanciandola con la necessità della componente intransitiva e compartecipata, ci conduce direttamente allo scenario prospettato dall’ipotesi opposta. Sennonché, le cose non vanno senz’altro meglio se si afferma l’anteriorità del riconoscimento e la mera posteriorità della rappresentanza: infatti, questa scansione, esigendo l’assetto di una collettività già sempre prodottosi in virtù di un riconoscimento senz’altro da presupporsi e, di conseguenza, la riduzione della rappresentanza a semplice dinamica iterativa di conferma, risulta insostenibile per due motivi. Anzitutto, perché dissolve il carattere contingente dello spazio collettivo e, con esso, anche la necessità della sua istituzione politica; e, in secondo luogo, perché, in fondo, finisce per autonegarsi, rendendo inutile il doppio momento di rappresentanza e riconoscimento.
La dissoluzione del carattere contingente e politico dello spazio sociale si verifica, in quanto una collettività fondata sull’autopresupposizione del proprio riconoscimento, assumendo immancabilmente i tratti di una totalità originariamente presente a se stessa, a ben guardare, dispone di se stessa in modo inconcusso e totale e, dunque, si rivela già sempre autocostituita fin dall’inizio. Si capisce allora che, in tale contesto, rimane poco spazio per la genuina necessità di un’azione veramente istituente e creativa, esercitata dalla partecipazione dei singoli entro una dimensione plurale.
La lacerazione del rapporto fra rappresentanza e riconoscimento che ne consegue trova riscontro, invece, nel fatto che un Noi collettivo, che ha già sempre autopresupposto il proprio riconoscimento, si rivela e si sa già da sempre e imperturbabilmente come se medesimo e, perciò stesso, non esige affatto un costitutivo riconoscimento, il quale, viceversa, può scaturire solo a partire da una situazione genealogica di incertezza e indecisione. [57] Parallelamente, ad attestarsi come altrettanto superflua è anche l’istanza della rappresentanza, la quale, sulla base di una costituzione collettiva già sempre stabilita e organicamente espressa, non si traduce in altro che nell’attività di singolarità pienamente identificate con la collettività medesima e che all’unisono ne ripetono tautologicamente l’identico.
Ma anche questa visione delle cose che, come si può intuire, coincide strutturalmente con la condizione di realizzata autonomia della società prospettata da Castoriadis, si rivela inadeguata. Difatti, un assetto compiutamente organico della collettività, in cui tutti parteciperebbero nel pieno accordo di un «noi lo vogliamo», [58] è altrettanto estrema e fittizia quanto la precedente ipotesi, dal momento che perfino nel regime politico più armonico, espresso nella forma diretta di democrazia, nella misura stessa in cui si dà motivo di partecipazione, si deve inevitabilmente riammettere quella contingenza genealogica prima esclusa. Si deve cioè riconsiderare il fatto che la partecipazione apre immediatamente lo spazio all’intervento genuino delle singolarità. Difatti, la partecipazione, lungi dal conformarsi a una visione della collettività come ordine totale e unitario, esige proprio il contrario, ovvero uno spazio pubblico originariamente frammentato e disomogeneo, che assume unitarietà e omogeneità solo attraverso un processo di istituzione immancabilmente selettivo. [59] Si tratta di un processo che, dando fondo alla pluralità delle voci singolari, [60] alla fine assume un assetto piuttosto che un altro unicamente sulla base di ciò che riesce a imporsi nelle negoziazioni scandite dalla dinamica di rappresentanza e riconoscimento.
E se le cose stanno in questi termini, si approda alla seguente conclusione: se prima, nella situazione estrema del regime totalitario e della configurazione esclusivamente verticale del potere, si è intercettato un immancabile rimando ad un nucleo democratico dello spazio politico e quindi all’espressione orizzontale del potere, che fa corpo con l’inevitabilità del riconoscimento collettivo, ora, nell’estremo opposto del regime pienamente democratico, non si può fare a meno di individuare il contrario, ovvero un costitutivo carattere pressoché violento e verticale del potere, [61] dovuto al fatto che la collettività, non possedendo la propria prefigurazione in un fondamento unitario ed incontrovertibile ad essa preposto (che, al contempo, ne prestabilisca e giustifichi i tratti), emerge solo grazie al potere che passa per l’intervento dei singoli. [62] E perciò, nel momento in cui la collettività emerge, affiora immancabilmente non come unica configurazione legittima, ma solo come una delle configurazioni possibili, come risultato dell’imporsi di alcune composizioni di senso su altre. L’imposizione, dunque, si identifica proprio con la transizione per la mediazione rappresentativa da parte delle singolarità che, portando alla luce talune possibilità di senso a scapito di altre e nella misura in cui poi riesce a superare il vaglio del riconoscimento, lascia affiorare queste determinate configurazioni di collettività rispetto ad altre possibili, e ciò senza che mai lo stabilirsi di questi (e non di altri) significati possa «porta[re] il sigillo di una piena legittimità». [63] D’altronde, è proprio questa impossibilità di assurgere alla giustificazione e legittimazione definitiva che non consente la chiusura del cerchio dell’istituzione [64] e, conseguentemente, mantiene aperta la collettività alla sua storicità. Mantiene, invero, la collettività inevitabilmente esposta a possibili modifiche attraverso l’insorgenza di nuovi percorsi di significato, i quali, di nuovo, possono affiorare solo mediante l’intervento di singolarità rappresentanti e collettività pronte al riconoscimento.
Questo è dunque il quadro che lascia emergere l’intimo rimando fra rappresentanza e riconoscimento e che rende ovviamente insoddisfacente la loro riconduzione entro la mera scansione di un «prima» e di un «dopo», là dove, a turno, è uno dei due ad assumere preminenza al prezzo dell’adombramento dell’altro, disattendendo così, ora in un modo ora nell’altro, la capacità di dare effettivo riscontro alla dinamica d’istituzione politica e contingente del mondo e della sua collettività.

c. Rappresentanza come espressione creatrice. Pensare l’istituzione a partire da Merleau-Ponty
La genuina compenetrazione di rappresentanza e riconoscimento ci pone, così, davanti al compito di non pensare ad una dinamica secondo cui una componente segue a ruota l’altra, bensì ad un’articolazione in cui ciascuna delle due cominci altrove rispetto a se stessa e dove quest’altrove coincide con la presupposizione dell’altra. Di conseguenza, lungi dal ritrovarci nella situazione di comprendere un’insorgenza della sfera d’apparenza del mondo e dell’assetto collettivo a partire dall’anteriorità della rappresentanza e dalla posteriorità del riconoscimento o viceversa, bisogna qui assumere tale emersione a partire dalla logica paradossale di una «posteriorità dell’anteriore» [65] o – secondo la celebre articolazione derridiana – nei termini di una supplementarietà originaria, in cui ciò che viene prima si manifesta soltanto attraverso ciò che viene dopo. [66]

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