DALL’AUTONOMIA RADICALE ALL’AUTONOMIA ASSOLUTA.
ANNOTAZIONI CRITICHE SUL DISCORSO DELL’ISTITUZIONE
DI CORNELIUS CASTORIADIS
di Ferdinando G. Menga
Eberhard Karls Universität – Tübingen

Soltanto cedendo alla seduzione della logica dialettico-speculativa, che prevede un ristabilimento finale unitario e autoreferenziale in seguito al superamento di ogni divisione e frammentazione, la collettività può avanzare la pretesa o la promessa di una piena realizzazione di «autonomia immanente». [45] Ma, a ben guardare, tale logica non solo promette più di quanto può mantenere, visto che, alla fin fine, la realizzazione ventilata resta sempre a venire, bensì paga anche il prezzo strutturale di dissolvere in partenza il problema che invece essa sarebbe addetta a risolvere con lo stesso movimento dialettico. Infatti, quest’ultimo intanto garantisce il raggiungimento dell’autonomia come suo fine solo a patto di presupporla come condizione originaria (da ristabilire), relegando così l’eteronomia, che si innesta nella pluralità, a mera condizione derivata e transitoria. E le ripercussioni rovinose di questo schema dialettico entro il contesto dell’istituzione sociale non sono difficili da cogliere, dato che la presupposizione dell’autonomia come condizione originaria non implica né più né meno se non una collettività che, partendo da un’autoreferenzialità e da un autopossesso originari, in fondo è già sempre costituita nei propri significati prima ancora che in essa si possa introdurre qualsivoglia movimento di istituzione politica degli stessi.
Perciò, schematizzando, possiamo affermare: una collettività che pretende la realizzazione di un’autonomia finale, lo può fare solo a patto di presupporla come condizione originaria da ripristinare; però, con l’inevitabile e paradossale risvolto che essa finisce, da sola, per sottrarsi da sotto i piedi il terreno sul quale affondano le radici stesse della sua istituzione, cioè la pluralità e l’eteronomia.
Ecco che, a questo punto, potremmo addirittura avanzare il sospetto di una certa seduzione dialettica interna alla proposta castoriadisiana. In fondo, una tale seduzione dialettica è costituita proprio dal cammino stesso di emancipazione orientato all’autonomia, poiché quest’ultima, non appena introduce lo spettro di una visione armonica e unitaria dello spazio collettivo, ricuce la frammentazione plurale dell’interazione istituente e, così, fa decadere, in un solo colpo, sia il carattere di contingenza che la necessità stessa dell’istituzione sociale.
D’accordo con quanto scrive Ciaramelli, non bisogna certamente confondere il progetto castoriadisiano dell’autonomia con lo schema tradizionalmente dialettico di matrice hegeliana, dal momento che, mentre in quest’ultimo il raggiungimento del telos è dettato e assicurato dal carattere di necessità tutto interno allo sviluppo della totalità, nel caso di Castoriadis, la realizzazione dell’autonomia, ovvero della democrazia diretta, avendo un «significato politico, non ha nulla d’ineluttabile, né tantomeno di “provvidenziale”. Anzi […] essa s’inscrive in controtendenza rispetto alla deriva più diffusa e più spontanea dell’esistenza sociale, consistente nell’occultare l’istituzione, appagandosi dell’eteronomia». [46] Tuttavia, a nostro parere, questo avvertimento di Ciaramelli, che mette in evidenza la componente inevitabilmente politica e quindi incerta della realizzazione dell’autonomia, per quanto riesca ad allontanare il fantasma della necessità hegeliana dal discorso di Castoriadis, non ci pare però sufficiente a liberarlo tout court dai tratti distintivi dell’impianto dialettico, in quanto l’assenza di una garanzia del raggiungimento del telos non toglie e non aggiunge nulla al fatto che quest’ultimo continui comunque a sostanziarsi nel suo ruolo di ripristino di una situazione di pienezza originaria smarrita e nondimeno presupposta come articolazione più autentica e propria della totalità (collettiva).
Ed è esattamente a tale livello che, a nostro modo di vedere, Castoriadis disattende la logica della pluralità e della contingenza, in quanto quest’ultima, escludendo la condizione di una compiutezza archeologica, non solo non contempla la realizzazione di qualsivoglia adempimento teleologico, bensì non ne prevede nemmeno la mera possibilità, sia che questa si espliciti nei termini di necessità logica, sia che assuma invece l’aspetto di una conquista storico-politica (come nel caso del progetto d’autonomia sopra illustrato).
Ed è per lo stesso motivo che la legge della pluralità non può ammettere neppure la strutturazione dello spazio politico prospettato dalla democrazia diretta, con la sua concomitante presunzione di un’espressione unitaria e totale della volontà collettiva.

 

5. Istituzione, rappresentanza, riconoscimento. Una descrizione fenomenologica

In opposizione alla situazione appena illustrata e criticata, a nostro avviso, se si vuole tener ferma la pluralità istituente e il suo ineludibile carattere di contingenza, bisogna allora rivolgere lo sguardo a un’articolazione dell’istituzione che concede dignità costitutiva alla dinamica rappresentativa della democrazia. Infatti, escludendo tanto la presenza di un fondamento unitario di tipo esteriore ed extra-sociale (regime d’eteronomia), quanto il suo opposto speculare, vale a dire quella di un fondamento unitario di tipo interiore, immediatamente inscritto nella sua immanente autoreferenzialità (regime d’autonomia), la pluralità istituente riflette sempre quella condizione originaria d’indisponibilità della collettività a se stessa, la quale richiama di per sé l’intervento delle singolarità entro lo spazio d’interazione, come unica dinamica capace di tirar fuori la collettività dal suo stato di indeterminazione. La mediazione rappresentativa si rivela così «carattere creativo» [47] o costitutivo di ogni istituzione sociale, per il semplice fatto che un Noi collettivo, non essendo una datità naturale unitaria, già sempre costituita e strutturata, necessita di una istituzione per emergere, e nella misura stessa in cui la esige, ha bisogno anche di rappresentanza, vale a dire, di un qualcuno che, entro lo spazio plurale, dicendo «noi», faccia affiorare per la prima volta il Noi stesso. [48]
Siamo così ricondotti alla necessità di una mediazione rappresentativa per ogni istituzione sociale caratterizzata da contingenza e storicità; una mediazione che si fonda sul fatto che l’istituzione, non possedendo la configurazione del proprio assetto globale a partire da un fondamento ad essa presupposto, riesce ad emergere solo allorché è essa stessa a portare alla luce gli ordini di significato e i lineamenti generali che la costituiscono. Si tratta qui però della scena di un’autoistituzione che non deve essere intesa nel senso che la collettività, nel fondo intimo di sé, disporrebbe di se stessa. Se così fosse, essa già sarebbe costituita e nemmeno esigerebbe un’istituzione. Invece, tale autoistituzione deve essere intesa nel senso che la collettività, a causa dell’impossibilità di disporre previamente della propria configurazione, diviene se stessa a partire da un altrove all’interno di sé. E quest’altrove coincide con l’articolazione dell’interazione plurale dei soggetti al suo interno; interazione che si palesa nell’intervento di individui singoli che, prendendo la parola in seno ad essa, parlano per essa, dunque la rappresentano, e unicamente così la portano per la prima volta alla luce, strappandola dal fondo oscuro e indeterminato di quello spazio del fra-di-noi, in cui essa ancora non beneficia di alcuna definizione.
Ecco dunque come, anche all’interno del contesto di una mediazione originaria che passa per la rappresentanza, trova collocazione e spiegazione quella dinamica di eteronomia orizzontale nel cuore dell’autonomia, di cui abbiamo parlato sopra. Adesso, infatti, possiamo dire: la società è autonoma, poiché si istituisce a partire da sé, vale a dire, dando fondo all’interazione dei propri membri; tuttavia, è anche e immancabilmente eteronoma, poiché questo «a partire da sé» non assume affatto i tratti autoreferenziali di un Noi che compattamente e autoriflessivamente dice «noi», bensì i tratti tali per cui la collettività riesce ad essere il Noi che è solo rimettendosi necessariamente alla sua alienazione o esteriorizzazione nella rappresentanza, [49] vale a dire a quell’uscita fuori di sé, che si verifica nel fatto che essa viene già sempre sostituita ogniqualvolta il qualcuno che la rappresenta dice «noi».
È proprio a quest’altezza che ci sembrano assolutamente appropriati i termini della descrizione di Pierre Bourdieu, il quale scrive: «un gruppo può esistere solo per mezzo della delega a una persona individuale […] un sostituto per il gruppo. […] in apparenza il gruppo crea l’uomo che parla al suo posto e in suo nome […], mentre in realtà è, piuttosto, più o meno vero dire che è il rappresentante che crea il gruppo. È perché il rappresentante esiste, perché egli rappresenta, che il gruppo che è rappresentato e simbolizzato esiste e, di ritorno, dà esistenza al suo rappresentante quale rappresentante del gruppo». [50] Pertanto, come continua Bourdieu, «c’è una sorta di antinomia inerente alla sfera politica, che si origina nel fatto che gli individui […] non possono costituire se stessi (o essere costituiti) come gruppo, cioè come forza capace di farsi sentire, di parlare ed essere ascoltata, a meno che loro non spossessino loro stessi in favore di un rappresentante. Si deve sempre rischiare l’alienazione politica per poter sfuggire all’alienazione politica». [51]
Tuttavia, come già affiora fra le righe della stessa riflessione di Bourdieu, c’è da evidenziare un altro punto, ovvero che, affinché l’istituzione del Noi collettivo possa compiersi, non è all’azione nuda e cruda della rappresentanza che ci si deve arrestare, dal momento che non è affatto detto che al qualcuno che dice «noi» faccia poi riscontro un Noi che si senta effettivamente rappresentato. In tal senso, essenziale all’azione di rappresentanza si rivela l’aspetto del riconoscimento collettivo, senza il quale la prima cadrebbe nel vuoto [52] o, nel migliore dei casi, si ridurrebbe a «mero tentativo o conato ordinamentale». [53] Pertanto, per cogliere la dinamica della rappresentanza nella sua complessità e completezza, è necessario affermare che essa si dà come rappresentanza con forza effettivamente istituente soltanto allorché i soggetti rappresentanti si mostrano in grado di fare affiorare quei significati fondamentali capaci di innescare un processo riuscito di riconoscimento collettivo.
Come si può intuire, allora, il riconoscimento che qui abbiamo sott’occhio assume un carattere del tutto peculiare, poiché non si rivela nei termini consueti di attestazione di uno stato di cose o di un’istanza ad esso precedenti (visto che questo stadio precedente, a rigore, non esiste). Piuttosto, nel nostro caso, ciò che il riconoscimento dovrebbe semplicemente confermare, la configurazione del Noi collettivo, è invece prodotto non prima del suo intervento; tant’è che, se i significati veicolati dalla mediazione rappresentativa non si accordassero con la possibilità di accoglimento da parte del riconoscimento compartecipato, accadrebbe che essi non riuscirebbero nemmeno a varcare la soglia che dalla latenza li porta alla luce pubblica, e così girerebbero a vuoto, rivelandosi incapaci di compiere un processo di costituzione collettiva. In altre parole, fallendo il riconoscimento, ai rappresentanti verrebbe a mancare l’istanza d’attestazione che li costituisce come tali e, parallelamente, al Noi collettivo verrebbero a mancare proprio quei significati fondamentali che, innescando un processo di adesione e compattazione, lasciano affiorare per la prima volta il Noi stesso. [54]
Ma se così stanno le cose, la relazione fra rappresentanza e riconoscimento sembra produrre una certa perplessità, in quanto, da un lato, si sostiene l’anteriorità della rappresentanza e la posteriorità del riconoscimento, nel momento in cui si dice che il ruolo di quest’ultimo sarebbe semplicemente quello di attestare l’assetto collettivo, che insorge unicamente attraverso la rappresentanza; dall’altro, si predica esattamente il contrario, ovvero l’anteriorità del riconoscimento, in quanto si afferma che la rappresentanza, affinché possa considerarsi effettivamente rappresentativa dell’assetto collettivo che lascia affiorare, lo deve già possedere proprio nei termini di ciò che si confà alla possibilità di riconoscimento da parte della collettività medesima; il che, però, significa che tale riconoscimento collettivo, in qualche modo, si deve essere già dato e, dandosi, deve aver già creato la collettività prima ancora che questa venga rappresentata.
Come si intuisce, tale perplessità assume i tratti inestricabili di una vera e propria aporia, non appena, fra i termini del rapporto, si pone l’esigenza di individuare una certa gerarchia fondativa. Ovvero, non appena ci poniamo la domanda: bisogna accordare una funzione costitutiva alla mediazione rappresentativa che, attraverso l’intervento delle singolarità, tira fuori dall’indeterminazione lo spazio collettivo, oppure al riconoscimento da parte della collettività, senza il quale ogni rappresentanza girerebbe a vuoto? Detto altrimenti: viene prima la rappresentanza e poi il riconoscimento, o viceversa?

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