AUTODISCIPLINA E LEGGE NEL NUOVO DIRITTO DELL’ECONOMIA
di Lucio Franzese

4. Lo Stato regolatore.

"L’economia di mercato è tutto fuorché assenza di leggi, ma l’ordine legale che le è coessenziale è fatto di regole arbitrali e non intrusive, di limiti all’azione privata e non di fini imposti ab externo, di antitrust e non di pianificazione"[AMATO 1997]. Con queste parole Giuliano Amato ritrae la fisionomia assunta in Italia dall’ordine giuridico dell’economia alla fine del ventesimo secolo quando, per effetto dei così detti processi di privatizzazione dei servizi e delle imprese pubbliche, di liberalizzazione di attività il cui esercizio in precedenza era sottoposto alla necessità di un titolo amministrativo, e per l’istituzione di Authorities, si è registrato il passaggio dallo Stato imprenditore allo Stato regolatore. Non senza incertezze e contraddizioni, i pubblici poteri hanno dismesso le vesti di operatori economici, di soggetti cioè che esercitano attività produttiva di beni e di prestazione di servizi, per concentrarsi sulla disciplina dell’economia.
In realtà lo Stato è sempre stato regolatore, ma nell’Italia repubblicana si serviva di tale funzione per conformare, come si è già detto, tramite la legge e l’attività amministrativa, gli scambi economici in vista del controllo sociale. Tant’è che ancora oggi per regolazione si intende, come si può leggere anche nella manualistica, la "funzione più tradizionale delle pubbliche amministrazioni, quella diretta a imporre la propria autorità perché le libertà costituzionali e comunque i diritti dei soggetti dell’ordinamento vengano esercitati senza pericolo per l’esistenza stessa o la salute e comunque per l’esercizio anche delle libertà e dei diritti degli altri"[SORACE 2000]. Dove i singoli sono chiaramente intesi come incapaci di discernere il bene dal male, al punto da fare ritenere che l’unico modo per evitare che cagionino danni a se stessi e agli altri sia quello di sottoporli all’altrui potere.
La novità di fine secolo non è l’esercizio della funzione regolatoria in campo economico ma il carattere soft della stessa, il suo essere cioè rispettosa della logica del mercato, delle sue modalità di funzionamento, non ritenendosi più che la legge susciti dal nulla l’ordine nelle relazioni economiche. Invero il "riappropriarsi, da parte della società civile, di compiti e funzioni prima affidati alla sfera del ‘pubblico’ non può che significare che il quadro di riferimento va ricercato in un complesso di regole e/o di principi da rinvenire nella stessa ‘società civile’ e nelle sue principali espressioni. Non si tratta di rinnovare il mito di un diritto ‘dei privati’ di ottocentesca memoria ma di pensare ad un quadro di riferimento dell’azione dei privati che non sia posto ab externo ma dall’interno della stessa esperienza nella quale essi agiscono"[DI MAJO 1992]. Non impermeabile alle ragioni degli imprenditori e non sostitutivo delle loro decisioni, l’odierno intervento normativo dello Stato nell’economia tende, infatti, alla "valorizzazione della capacità di autoregolamentazione degli imprenditori stessi"[ROPPO 1997].
Avendo smesso di presupporre il mercato come luogo dell’anomico appropriarsi di beni e servizi, in forza del potere individuale, secondo quello che è lo stereotipo proprio della geometria legale, il legislatore prende atto di una realtà economica fortemente strutturata, dove gli scambi si realizzano secondo una precisa trama di prassi e consuetudini commerciali, di modelli uniformi di contratti atipici, rivelatori dell’attitudine del singolo a regolare da sé la propria condotta e ad assoggettarsi alle relative determinazioni. Del resto, non si può disconoscere che "parti essenziali della disciplina giuridica del mercato, dal diritto commerciale della tradizione al moderno diritto del commercio internazionale, si sono sviluppate proprio sulla base degli usi e dell’autonomia privata (e quindi in modo spontaneo)"[LIBERTINI 1999].
E’ l’autonomia soggettiva a fondare i precetti negoziali con cui le parti dialetticamente, mediante cioè il riconoscimento in comune del proprio di ciascuna, provvedono a definire i loro rapporti economici. E la violazione dei patti comporta la lesione della suitas del singolo, ovverosia della sua capacità di relazionarsi, così come emersa per effetto della fissazione con l’altro della comune regola di condotta. Per di più, ogni operatore economico è consapevole che l’infedeltà agli accordi intacca la fiducia che gli altri operatori nutrono nei suoi confronti e lo espone al rischio di veder compromessa la propria cifra professionale, il suo buon nome, e quindi i guadagni futuri; al limite, di essere escluso dal circuito commerciale.
E’ di tutta evidenza che in un’epoca di globalizzazione dell’economia, quale quella in cui viviamo, il rispetto di un patto, di un contratto non nasce dal comando eteronomo della legge -non essendoci alcuno Stato così forte da poter imporre la propria volontà alla comunità ormai apolide dei mercanti, estesa e operosa oltre ogni confine nazionale- bensì dalla cogenza del vincolo stesso e, quindi, dalla capacità delle parti contraenti di mantenere la parola data. Il senso del dovere, la propensione alla condotta disciplinata, invero, garantiscono in primis il rispetto del regolamento divisato dalle parti, che è percepito come irretrattabile per l’affidamento ingenerato nell’altra parte e nei terzi, anche nel caso in cui venga meno l’interesse di una di esse nei confronti dell’assetto che era stato progettato: evenienza non rara, avuto riguardo al carattere erratico della volontà individuale.
In questa temperie, compito precipuo del legislatore è quello di consentire che l’autoregolamentazione possa esercitarsi in condizioni di equilibrio fra gli operatori economici, agendo sulla correttezza e trasparenza delle loro negoziazioni e sulla stabilità degli accordi che essi raggiungono. Si tratta, esemplificativamente, di colpire le asimmetrie informative che impediscano agli agenti negoziali di potersi impegnare alla luce delle cognizioni necessarie; di contrastare le disparità in ordine alla programmazione ed esecuzione del regolamento negoziale che neghino la sinallagmaticità fra le prestazioni; di combattere monopoli e rendite di posizione, oltre a intese e concentrazioni collusive tra imprese, che ostacolino l’instaurarsi di una effettiva concorrenza; di rafforzare l’inderogabilità degli impegni contratti, sanzionando la leggerezza nei traffici commerciali mediante il riferimento all’autoresponsabilità individuale. Insomma, il legislatore è chiamato a rafforzare "regole e regolarità"[COSSUTTA 2001], punendo l’esercizio arbitrario dell’autonomia soggettiva, la perpetrazione cioè di abusi e prevaricazioni in danno dei soggetti meno provveduti e, prima ancora, stimolando la propensione del singolo a regolare da sé il proprio agire e a rispettare gli impegni in tal modo assunti.
Tali finalità, a ben vedere, emergono da alcuni filoni della nostra legislazione dell’ultimo decennio che, promuovendo l’affidabilità e l’efficienza delle operazioni commerciali, cioè delle condizioni che connotano il mercato come istituto sociale, garantiscono all’autoregolamentazione soggettiva l’humus necessario al suo pieno sviluppo. "Penso -ha dichiarato di recente Perlingieri- che il nuovo diritto dei contratti sia senz’altro un diritto che si ispira a questa problematica di fondo, il ruolo della persona nel mercato, la funzione del mercato per la persona"[PERLINGIERI 1999]. Oltre alla disciplina antitrust, vengono in rilievo, in particolare, le norme introdotte nel codice civile in attuazione della direttiva 93/13/CEE sulle clausole abusive, e la legge sul contratto di subfornitura. Si considerano abusive o vessatorie -quest’ultima è la formula adottata dal legislatore italiano in conformità alla nostra tradizione- quelle clausole che, in violazione della buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto. La disciplina concerne i rapporti contrattuali tra consumatore-persona fisica e professionista, persona fisica o giuridica che agisce nell’ambito della sua attività professionale, sia essa pubblica o privata. Non rientrano nel campo di applicazione della normativa, invece, i contratti tra operatori economici oggetto della disciplina sulle subforniture industriali, che vieta l’abuso della dipendenza economica, vale a dire della situazione in cui un’impresa è in grado di determinare, nei rapporti economici con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio dei diritti e obblighi.
Orbene, mentre nel sistema codicistico la congruità giuridica dello scambio contrattuale predisposto dalle parti, la misura cioè della ripartizione di diritti e doveri reciproci, rileva solo in caso di rescissione per l’iniquità delle condizioni imposte al contraente che versava in stato di pericolo o di bisogno (artt. 1447-1448 c.c.) e nell’ipotesi di risoluzione a causa della sopravvenuta eccessiva onerosità della prestazione nei contratti di durata ( art. 1467, co. 3, c.c.), per effetto delle disposizioni citate si delinea "un nuovo principio del diritto dei contratti che sancisce il dovere della parte forte di non abusare del suo potere contrattuale per squilibrare a suo favore il regolamento del contratto"[BIANCA, 2000]. Più precisamente, si è "introdotto il principio che l’abuso della posizione di potere del contraente forte implica violazione del dovere della buona fede contrattuale nella formazione del contratto"[GALGANO 1997]. Sicchè il legislatore, nell’incidere sul regolamento predisposto dagli operatori economici, tutela la correttezza, la lealtà e la trasparenza dell’agire negoziale, in una parola la bona fides che, improntando le relazioni intersoggettive già nella realtà sociale, costituisce il principio su cui fa leva l’intervento legislativo stesso, nel momento in cui riconosce il mercato come luogo di esercizio dell’autonomia soggettiva.
Anche la giurisprudenza ravvisa nella buona fede un criterio per sindacare gli effetti del contratto, consentendone l’integrazione nel caso in cui si rivelino inadeguati a conferire ordine alla relazione programmata. Così si è affermato, ad esempio, che la buona fede nell’esecuzione del contratto rappresenta un parametro mediante il quale il giudice può sindacare la legittimità del recesso della banca dal contratto di apertura di credito, ovvero il recesso dal rapporto di lavoro da parte di un’azienda nei confronti di un proprio dirigente. Del pari, si è sentenziato che "il principio di buona fede, che si specifica nel dovere di ciascun contraente di cooperare alla realizzazione dell’interesse della controparte, si pone come limite di ogni situazione, attiva o passiva, negozialmente attribuita, determinando così integrativamente il contenuto e gli effetti del contratto"[Cassazione 14 luglio 2000, n. 9321].

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